Incipit: sul set di un disaster movie, un giovane attore viene scagliato contro un palazzo in fiamme. Stacco: un attore bambino riceve una grande torta in faccia. L’attore è lo stesso, in due momenti diversi della breve carriera: è uno che subisce, accumula, incassa. Un corpo a disposizione della macchina-cinema. Si scrive Otis Lort, si legge Shia LaBeouf: un giovane attore, già baby star, affetto dal disturbo da stress post-traumatico, che, dopo un incidente avvenuto in stato di ebbrezza, viene ricoverato in una struttura per la riabilitazione. Senza reticenze né pudori, con una consapevole tensione liberatoria, Honey Boy è letteralmente il film della vita dell’antidivo maudit: un’autobiografia per immagini ma anche una rinascita.

LaBeouf ha scritto la sceneggiatura proprio nell’ambito del programma terapeutico, lasciando la regia all’amica Alma Ahr’el, versatile documentarista e regista di video musicale all’opera prima nella fiction. E si riesce, così, a trovare un’interessante e a tratti toccante mediazione romanzesca nel ripensare e rimettere in scena l’infanzia dell’autore-attore attraverso lo sguardo altro ma complice della regista. È chiaro che la trasparente dimensione biografica costituisce l’elemento fondamentale di questo flusso di ricordi enunciati entro una sorta di confessione o seduta psicanalitica, ma Honey Boy riesce a trasmettere un dolore, una rabbia, un furore così autentici da emanciparsi ben presto dall’autoreferenzialità del diario personale per porsi quale testimonianza capace di parlare a un pubblico universale. Con una prima parte in apnea che appare più affascinante della seconda in cui, forse, subentra il dovere di dare ordine al subbuglio per chiudere il ciclo di metafore ed eccentricità indie.

Due piani di racconto: il percorso terapeutico dell’attore ventenne, tra test esasperanti e fughe oniriche; il periodo, attorno ai 12 anni, in cui deflagra il rapporto tra l’attore bambino e il feroce padre alcolizzato e tossicodipendente. Quasi per esorcizzare i propri demoni, LaBeouf ritaglia per sé proprio questo ruolo, portandovi sì tutto il disprezzo per l’uomo che considera all’origine di tutti i problemi ma al contempo provando a capire, esplorare, confutare le contraddizioni e i disastri interiori di un reduce incapace di comunicare col mondo e farsi amare dal figlio. Intrigante il casting per Otis: da piccolo è interpretato dal lanciatissimo e prodigioso Noah Jupe, e da ragazzo conta sui nervosismi di Lucas Hedges, figlio d’arte che ha debuttato al cinema da adolescente.