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Dopo il “carrello”, torna in scena “Kapò”

Riprendere in mano un film del passato costituisce spesso l’occasione per ripensarlo alla luce del tempo trascorso, rendergli giustizia perché incompreso all’uscita oppure ridimensionarlo rispetto ai giudizi dell’epoca. Il caso di Kapò, restaurato in 4K da Cineteca di Bologna e Cristaldi Film, è abbastanza particolare. Secondo opus della parca carriera di Gillo Pontecorvo, buon successo di pubblico, candidato all’Oscar per il miglior film straniero, è stato negli anni un po’ trascurato, quasi dimenticato e perfino scalzato dalla fortuna di un celebre e violento intervento critico: “il carrello di Kapò” – reso immortale da un fondamentale saggio di Serge Daney così intitolato – è un’espressione entrata nell’immaginario cinefilo, al punto che anche chi non l’ha mai visto lo prende a metro di paragone per tutte quelle scene che non andrebbero spettacolarizzate.

“Where’s My Roy Cohn?” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Where’s My Roy Cohn? La domanda che fa da titolo al documentario di Matt Tyrnauer, apprezzato al Sundance e presentato alla Festa del cinema di Roma, è stata pronunciata dal presidente Trump ai tempi del Russiagate. L’invocazione di “The Donald” è ben comprensibile, dal momento che il famigerato avvocato Roy Cohn ha attraversato il peggio della storia americana, mantenendo il ruolo di eminenza grigia della politica di destra made in USA. La condanna a morte dei coniugi Rosenberg, la commissione per le attività antiamericane, i processi contro i boss delle famiglie mafiose, l’ascesa economica di Trump: il volto di Cohn appare accanto a quello dei più discussi personaggi del secondo novecento, dal senatore McCarthy all’attuale inquilino della Casa Bianca.

“Cecchi Gori – Una famiglia italiana” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Si sa, la storia del cinema italiano è talmente avventurosa, picaresca, stratificata da prestarsi a mille prospettive dalle angolazioni più disparate. Un testo aperto che è al contempo storia e leggenda, cronaca e mitologia, sogno e incubo. Concentrarsi sui produttori è una delle tante possibilità, probabilmente non tra le più coltivate per quanto esistano “episodi” molto interessanti (la monografia Dino di Tullio Kezich su De Laurentiis, i documentari su Goffredo Lombardo e Franco Cristaldi). A Simone Isola, a sua volte produttore ma anche docente universitario, va riconosciuto anzitutto il merito di proseguire su questa strada, dedicata al racconto di personalità che sapevano unire la visione di un progetto artistico e la vocazione mercantile.

“Judy” alla Festa del Cinema di Roma 2019

L’inizio e la fine della carriera di Judy Garland, al secolo Frances Ethel Gumm, diventata con Il mago di Oz una star di prima grandezza e morta a soli quarantasette anni, consumata dall’abuso di alcol e pasticche. Il biopic Judy, presentato alla Festa del cinema di Roma, si muove tra questi due piani temporali, raccontando l’inizio del sogno, l’incubo che nascondeva e i suoi effetti distruttivi sulla vita della protagonista. Siamo nel 1968, e la Garland, quattro divorzi alle spalle – tra cui quello con il regista Vincente Minnelli, padre di Liza – si ritrova senza soldi e senza casa ed è costretta ad accettare una tournée di concerti nei teatri londinesi per poter rivendicare l’affido dei figli. Sono gli ultimi mesi della sua esistenza, i più difficili, schiacciati dalla cirrosi epatica, dalle dipendenze e dai fantasmi del passato.

“Le ragazze di Wall Street” e la narrazione della crisi

Nella grande narrazione già decennale della crisi finanziaria, Le ragazze di Wall Street è un tassello tra i più intriganti. Non solo perché costituisce un esaltante incrocio tra l’ascesa criminale di una ragazza del ceto medio-basso travolta dall’estasi tossica dei soldi facili e l’affresco socio-culturale di un mondo raccontato con un palpabile senso della fine, come si vede nel clamoroso momento in cui il rapper arriva nel locale lanciando banconote in aria e tutte le spogliarelliste si esibiscono appagate e compiaciute. Ma anche perché, con una notevole profondità nel definire contesti e psicologie senza moralismi né indulgenze, ha una capacità di farci immergere in un film feroce, divertente e vorticoso, fondato sulla polisemia del desiderio in un orizzonte dove gli uomini sono stupidi bancomat, violenti predatori, padri assenti.

Il ritmo forsennato di “La belle époque”

Tutti noi abbiamo sognato di poter rivivere un giorno della nostra vita, uno di quelli indimenticabili, di cui ricordiamo ogni particolare e che ha cambiato per sempre il corso delle nostre esistenze. È questo lo spunto di La belle époque di Nicolas Bedos, presentato alla Festa del cinema di Roma e in sala dal 7 novembre e. Il fumettista Victor è infelicemente invecchiato e vive con una moglie psicanalista che cerca di mantenersi giovane a tutti i costi: lui rifiuta ogni tecnologia mentre lei ha lasciato i pazienti per creare un app di analisi online.  Dopo quarant’anni di matrimonio i due sono ai ferri corti, e Victor si ritrova cacciato di casa. Decide così di accettare uno strano regalo fattogli dal figlio: un regista metterà in scena per lui un moneto del passato. L’uomo non ha dubbi: il 16 maggio 1974, giorno in cui in cui conobbe in un bar di Lione la futura moglie.

“The Irishman” e il tempo della Storia

Il tempo della storia si dispiega passo passo, invade ogni inquadratura, ed è il vero protagonista e il punto di vista primo e ultimo del film. Il tempo che trascorre inesorabile e senza emozioni sullo schermo e quello che è trascorso nella realtà, nascosto dall’impressionante ringiovanimento digitale dei protagonisti ma impossibile da cancellare dai gesti, dagli sguardi, dai corpi degli attori. Una scelta folle e meravigliosa che si carica di significati, canto del cigno di un cinema e di una generazione e disperata dichiarazione sullo spietato avanzare degli anni. Tutto sparisce, tutto viene dimenticato, niente ha più importanza. Hoffa, santo e mafioso, famosissimo “come Elvis negli anni ’50 e come i Beatles nei ‘60” diviene solo una figurina sbiadita in una foto in bianco e nero, irriconoscibile per le nuove generazioni.

“The Irishman” e la vertigine del canto funebre

Non c’è etica e non c’è epica: non c’è niente di affascinante in chi ha scelto il male perché gli altri posti erano occupati o più scomodi, non c’è la mitologia degli angeli caduti costretti alla criminalità per colpa di una società ostile, non c’è nessuna attrazione verso corpi anziani ringiovaniti artificialmente grazie a miracolosi effetti speciali. E se i volti di Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci ritrovano giovinezze perdute, i movimenti sono già quelli incerti di coloro che hanno visto scorrere troppo sangue. Spingendosi nei territori di Robert Zemeckis e Steven Spielberg dove la tecnologia è al servizio dell’umanismo, Scorsese alza la posta e porta il cinema ai confini del possibile, (re)inventando, per questo film fortemente desiderato, un passato impossibile al fine di produrre qualcosa che ai nostri occhi sembra davvero impressionante.

“Downton Abbey” e lo spirito della nazione

La sceneggiatura di Fellowes è la vera colonna portante di serie e film, e dimostra tutta l’abilità dell’autore (evidente fin dai tempi dell’atmaniano Gosford Park, primo tassello della sua riflessione sul rapporto tra la servitù e i loro signori) nel gestire i racconti corali, lasciando a tutti i personaggi il giusto spazio e la possibilità di sviluppare la propria storia personale. Al cast storico si aggiunge Imelda Stanton, protagonista di alcuni imperdibili scambi al vetriolo con una grande Maggie Smith, a cui sono riservate le battute più sagaci. Schegge di umorismo british che sono l’acqua alla vita di un film capace sia di soddisfare i fan che di coinvolgere i neofiti, pur perdendo qualcosa della complessità e della capacità di analisi sociale a cui ci aveva abituato la serie TV.

“Honey Boy” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Incipit: sul set di un disaster movie, un giovane attore viene scagliato contro un palazzo in fiamme. Stacco: un attore bambino riceve una grande torta in faccia. L’attore è lo stesso, in due momenti diversi della breve carriera: è uno che subisce, accumula, incassa. Un corpo a disposizione della macchina-cinema. Si scrive Otis Lort, si legge Shia LaBeouf: un giovane attore, già baby star, affetto dal disturbo da stress post-traumatico, che, dopo un incidente avvenuto in stato di ebbrezza, viene ricoverato in una struttura per la riabilitazione. Senza reticenze né pudori, con una consapevole tensione liberatoria, Honey Boy è letteralmente il film della vita dell’antidivo maudit: un’autobiografia per immagini ma anche una rinascita.

“Scary Stories to Tell in the Dark” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Come nell’It kinghiano, sono le colpe del passato, l’avidità, la discriminazione, l’odio (nutrito dalle parole, dalle bugie raccontate e dalle verità tacitate) a creare il mostro che aleggia sulla città. E, come spesso accade nel cinema di Del Toro, è stretto il connubio tra Storia e storia, tra realtà del tempo (e del nostro tempo) e paure, non solo soprannaturali. L’anno è il 1968, sugli schermi delle vecchie TV in bianco e nero passano ripetutamente le immagini della campagna presidenziale di Richard “Tricky Dick” Nixon (che nome perfetto per un mostro da teen horror!) e il fantasma feroce e sanguinario della guerra del Vietnam spaventa più di qualsiasi casa stregata. Una scary story terribilmente reale, pronta a catapultarti in un mondo da incubo da cui è difficile tornare indietro.

“The Farewell” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Dopo il successo (ma non da noi) di Crazy Rich Asian, The Farewell costituisce un nuovo tassello della narrazione sulle minoranze rivolta alla fruizione di un pubblico popolare e trasversale. Se in quel caso c’era la commedia matrimoniale a rappresentare lo spazio in cui raccontare una comunità poco considerata dal cinema americano se non con stereotipi e macchiette, qui c’è l’universalità del family drama a favorire il coinvolgimento nell’avvicinarsi a una cultura diversa. Benché sia ambientato in Cina, il film è filtrato attraverso lo sguardo di una protagonista ormai cinoamericana alla ricerca di un equilibrio tra il sistema di tradizioni e costumi della società d’origine e l’adesione alla mentalità della terra che l’ha accolta e con cui intrattiene un rapporto complesso (lo spaesamento finale nella metropoli).

“Motherless Brooklyn” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Il progetto di trasformare in un film il romanzo di Jonathan Lethem, Norton lo inseguiva da due decenni, arrivando dopo molti ripensamenti a scriverne la sceneggiatura, interpretarlo e curarne la regia. I debiti verso il cinema classico sono evidenti e per niente nascosti, tanto che l’azione è spostata dagli anni ’90 dei lupi di Wall Street all’America prosperosa e apparentemente felicissima del secondo dopoguerra. Un’inversione rispetto i topoi del genere Norton la cerca nelle dinamiche dei personaggi, con un detective malato tutt’altro che hard boiled e una femme per niente fatale, salvifica invece che tentatrice. La riflessione, attualissima, sul potere e sull’emarginazione, sul nuovo e perfetto che vuole sostituire il vecchio e l’imperfetto, si perde però in un diluvio di parole, nel tentativo di spiegare una storia che rimane comunque oscura e macchinosa.