Jean Renoir dirige Jean Gabin e Louis Jouvet nel libero adattamento del testo teatrale di Gor’kij. Se nel 1902 Gor’kij colloca ogni vicenda dentro le mura dell’oscuro dormitorio sul Volga, trentaquattro anni dopo Renoir vi evade già dalla prima scena. Mentre il testo teatrale rappresenta un’umanità misera e immobile, Renoir emerge dall’abisso ipotizzando la possibilità di un riscatto. Insomma i bassifondi del drammaturgo sono  molto distanti da quelli del regista. Gabin trentenne, da poco avviato al successo (proprio intorno al ‘36 interpreta i suoi ruoli più fortunati) è un ladro che desidera una vita onesta con la sua amata, ma sarà ostacolato dall’avido proprietario del rifugio e dalla sua gelosissima moglie, sorella della ragazza.

Sullo sfondo, l’inventario di vagabondi filosofi, attori itterici, prostitute e indigenti che popolano il rifugio. La storia d’amore tra il dignitoso ladro Pepel e Natacha (Junie Astor) è un passaggio funzionale ma emotivamente poco palpabile. Di tutt’altro carisma è l’incontro (e la successiva amicizia) tra il criminale e il barone, l’amato attore teatrale Jouvet: ennesima variazione narrativa di Renoir che coincide con una delle sue intuizioni più felici. Cappello e impermeabile, Pepel irrompe nella casa del barone attendendosi il colpo della vita, ma sarà anticipato dalle tendenze autodistruttive del collega. Ludopatico, tendente al suicidio e anch’esso ladro: nella sfarzosa abitazione prossima al pignoramento si suggella l’amicizia tra i due gentiluomini con lucida ironia e un massiccio trofeo ippico.

Alexander Sesonske osserva che i trionfanti cavalli di bronzo si incrociano, ma sono rivolti in due direzioni opposte. Lo stesso vale per gli amici che si affezionano per un’assurda contingenza ma non possono avere desideri più lontani. L’aristocratico decaduto trova una liberazione nello stesso desolante ostello che per Pepel è un luogo da cui fuggire. È il 1936, il russo Kamenka commissiona il film e la fiducia legata al Fronte Popolare non può scontrarsi con con il pessimismo senza via d’uscita dell’opera di Gor’kij: è appunto la fuga dai bassifondi l’ultimo scarto narrativo. Fagotto (e cavallo di bronzo) in spalla, Pepel e  l’innamorata si allontanano come due eroi del coetaneo Tempi Moderni, rubando la scena al suicidio dell’attore folle (Le Vigan): si direbbe che mentre nell’ albergo si cristallizza la vita dei diseredati, Renoir inventa spazi e scene che suggeriscono una fiduciosa apertura.