Dopo lo spin-off Solo – A Star Wars Story, la saga ideata da Lucas torna nei cinema con Episodio IX: L’Ascesa di Skywalker, l’ultimo capitolo della trilogia iniziata nel 2015 con Il Risveglio della Forza. L’ingresso del franchise nel parco titoli Disney ha portato le nuove pellicole ad allontanarsi dalle trame sociopolitiche del passato, nel tentativo di ammiccare al target di grandi e piccini, da sempre il preferito del colosso statunitense. La formula per poter soddisfare genitori e figli, fan accaniti e neofiti, sembrerebbe risiedere in un’estrema semplificazione della narrazione, oliata dalla riproposizione ciclica di situazioni e personaggi iconici: già da Episodio VII vediamo così il Primo Ordine impegnato nella costruzione di una nuova Morte Nera, un nuovo eroe nato in terra desertica e persino la riproposizione dell’ormai proverbiale “io sono tuo padre”, seguito dall’inevitabile strascico di scioccanti (?) rivelazioni.  Se questa è stata la ricetta sfruttata da Abrams per Il Risveglio della Forza e seguita pigramente da Howard in Gli Ultimi Jedi, L’Ascesa di Skywalker porta questo modello a nuove altezze.                                                                                                        

La riproposizione del noto, al centro di innumerevoli teorie dell’intrattenimento contemporaneo, finisce qui per essere spinta all’esasperazione, sino a provocare un cortocircuito nella costruzione della vicenda. Episodio IX non si limita ad essere punteggiato di richiami al passato, ma si configura come un grande patchwork di trovate, situazioni e personaggi appartenenti alle otto pellicole precedenti. I luoghi visitati sono già visti (la Morte Nera, la Star Destroyer di Kylo Ren) o copie di copie (l’ennesimo pianeta desertico, l’ennesima cantina), il cast dei protagonisti si arricchisce di volti già noti (il beffardo Lando Carlissian, un po’ sovrappeso) e lo stesso antagonista principale è un villain centenario, resuscitato dal tradizionale spiegone di inizio film. Il ritorno dei defunti emerge come tematica ricorrente con lo scorrere del minutaggio: assistiamo all’ultima performance di Carrie Fisher, scomparsa nel 2016, mentre il mondo diegetico viene investito da un numero inusuale di force ghosts, mai stati così loquaci.

La tensione verso il passato sembra essere così forte da pietrificare il presente, avvolgendo il gruppo dei protagonisti in una spessissima plot armor. Il film gioca sistematicamente a contraddirsi, calando i buoni in circostanze catastrofiche da cui escono inspiegabilmente illesi, indebolendo progressivamente la carica drammatica dell’ultima guerra tra bene e male, Jedi e Sith. Se nel già sgonfio Gli Ultimi Jedi la Resistenza subiva poche perdite, l’unica vittima degna di nota di Episodio IX è Leia, il cui sacrificio fa eco a quello di Luke nella pellicola precedente. Con il susseguirsi degli scontri si fa strada l’impressione che, nonostante le preoccupazioni di Poe Dameron, la guerra sia già vinta, e gli oppressi siano in realtà i poveri stormtroopers, travolti da esplosioni, crivellati dai blaster o tagliati dalle spade laser.                                                                                                                            

Assemblaggio di tasselli visti e rivisti, l’Episodio IX di Star Wars costituisce l’inveramento della profezia del blockbuster definitivo: un film che non eccede/eccelle in nulla e parla a tutti, che stupisce senza stupire e, in definitiva, intrattiene senza intrattenere. Alle critiche dei fan più fedeli, scandalizzati dalla libertà con cui la Disney ha gestito l’enorme mole di materiale narrativo costituita dall’“universo espanso”, intere serie di libri e fumetti bollate come non canon e saccheggiate dall’ultima trilogia, rispondono gli enormi numeri ottenuti al botteghino, prova dell’efficacia di una scrittura pigra, incentrata sull’estenuante riproposizione delle stesse formule. L’operazione effettuata da Disney sembra indicare una nuova strada per la prossima generazione di tent pole movies: superato il pastiche postmoderno e il remake, sembra che la nuova faccia del blockbuster possa essere il patchwork, una riproposizione di situazioni e personaggi facilmente riconoscibili ma calati in contesti di volta in volta leggermente diversi. L’infinito ritorno del simile, ogni volta più logoro e stanco.