Uno spettro si aggira per la Sicilia, lo spettro del comunismo.

Sicilia, 1990. Enrico ha un problema, il Partito Comunista Italiano. E un sogno: essere come gli altri. Figlio di un dirigente locale del partito e di una “comunista emozionale”, il dodicenne invoca per se, inutilmente, la triade del momento, quella che desiderano tutti i suoi coetanei: Reebok, Rambo e Nintendo, simboli di quel capitalismo e di quell’occidente USA che i genitori sentono ancora di dover tenere lontano nonostante il muro di Berlino sia già caduto e anche l’URSS non si senta tanto bene. Nella famiglia di Enrico sono vietate le cose di marca, i cartoni animati delle reti di Berlusconi, qualsiasi rapporto con scout e mondo cattolico. Il chinotto e la spuma sostituiscono la Coca Cola e la Fanta, e anche mangiare una merendina diviene un’inaccettabile trasgressione alla “diversità morale”.

Il comunismo nel film dell’esordiente Scivoletto (che adatta un suon romanzo del 2019, nato però originariamente come soggetto cinematografico) è pero solo uno spettro. E non uno spettro minaccioso, quello che si aggira per l’Europa foriero di rivoluzioni evocato da Marx ed Engels nell’incipit del Manifesto. Ma il fantasma inquieto di un grande ideale che è già passato e ormai non c’è più, se non nelle convinzioni di chi in quell’ideale ha creduto e per quell’ideale ha combattuto. Il fantasma di Enrico Berlinguer che il protagonista, Enrico anche lui (e non è un caso), vede ovunque e a cui chiede consiglio.

Il fantasma del padre defunto e venerato del ‘piccolo Gramsci’ Renato, al quale il figlio ha dedicato un mausoleo pieno di memorabilia del vecchio PCI. È in uno dei polverosi giornali-cimelio di quella stanza che sembra ferma agli anni Settanta che Enrico trova l’idea per fuggire dalla prospettiva di un’estate con il padre in giro per le sezioni: rifondare i Pionieri, il gruppo degli scout comunisti, e scappare in montagna, concedendosi finalmente una vera vacanza. Ai due amici si uniscono, un po’ per caso, il figlio prepotente del capo missino del paese e una ragazzina della base NATO di Comiso, anche lei in fuga.

Uno spettro sì, quello del PCI, ma concreto e capace di disturbare molti sogni, visto che, da Quando di Veltroni al Sol dell’avvenire del prossimo Moretti, sembrano essere ancora in tanti a dover e voler fare i conti con il partito comunista “più grande d’occidente”. Il merito di Scivoletto, pur non riuscendo sempre a tenere le redini dell’evoluzione narrativa e perdendosi per strada qualche spunto e qualche personaggio, è quello di aver voluto affrontare il tema da una prospettiva insolita e ancora poco sfruttata, quella dei ragazzi nati da genitori comunisti negli anni del crollo delle ideologie e del berlusconismo galoppante (una condizione che anche chi scrive, ci preme confessare, conosce molto bene).

E di aver saputo utilizzare bene l’arma dell’umorismo, l’unica possibile, che un po’ colpevolizza e un po’ assolve i poveri genitori (ottimo il trio Peppino Mazzotta, Lorenza Indovina ed Eleonora Danco) rimasti ancorati all’ideale. Questi comunisti “che si sentono in colpa per tutto”, sempre in disaccordo, granitici solo quando si tratta di educare i ragazzi, appaiono più spaesati dei loro figli, alle prese come sono con la svolta di Occhetto e la fine dell’URSS. Perché almeno i cattolici ancora credono ancora in Dio, mentre al comunismo non crede più nessuno.

A salvarli sono proprio i figli. Nonostante la giusta insofferenza, nonostante la mossa eversiva della fuga, nonostante l’amore politicamente sbagliato per la ragazzina figlia dei ‘nemici’ americani, alla fine il piccolo Enrico riconosce, almeno in parte, la validità di quei valori: sente che qualcosa deve a quel partito “della classe operaia, degli intellettuali, dei grandi registi e dei cantanti pallosi”. Che forse si può essere “uguali, ma diversi” (Moretti docet). E se anche il sogno sovietico è ormai solo una chimera (nel caso fosse ancora necessaria una conferma, guardate i titoli di coda), poco importa.

Veder sventolate la bandiera rossa con falce e martello sulla base americana è per i coraggiosi pionieri una soddisfazione e un’emozione non da poco. E lo è anche per qualsiasi vecchio figlio di comunisti, allora coetaneo dei protagonisti e ormai in età per essere loro padre.