"I touch your lips and all at once the sparks go flying
Those devil lips that know so well the art of lying
And though I see the danger, still the flame grows higher
I know I must surrender to your kiss of fire.."


In un'intervista di qualche anno fa, tazzina di tè alla mano e un'ombra di ghigno, Woody Allen tira le somme del suo pessimismo cosmico in venticinque secondi netti. Sì, talmente cliché che chiunque abbia un profilo facebook se la sarà vista propinare un migliaio di volte, del resto è stato lui in Basta che funzioni a suggerire che un clichè possa essere il modo più diretto per dire qualcosa. Lo ricorda astutamente anche all'inizio di La ruota delle meraviglie ("vi avverto che sono un narratore melodrammatico, amo fare uso di simboli" ecc); bisogna voler stare al gioco. Tornando all'intervista il sunto è che le persone si danno un gran daffare per vivere meglio possibile e combinare qualcosa di buono. Poi semplicemente muoiono, loro e tutti i loro discendenti, e poi il sole implode con tutti i pianeti e la memoria dei grandi uomini, e poi l'universo collassa, eccetera.. A che pro restare al mondo?

Lungo la filmografia di Allen si gioca una pluridecennale partita a scacchi fra l'istinto che cerca scampo nell'illusione e la lucida ragione che lo accusa senza potersene liberare. Non per forza l'illusione di una vita al riparo dal dolore, se scelta e partecipata può anche essere terribile, purchè al riparo dal Dio della rete da tennis che sempre e comunque gioca a dadi con l'universo. Da La Nascita della Tragedia di Nietzsche: “...non sono solo le immagini piacevoli e amene che egli sperimenta in se con quella capacità di tutto comprendere: anche ciò che vi è di grave, cupo, triste, oscuro (...) sfila davanti a lui non come un gioco di ombre - dato che egli vive e soffre in queste scene - e tuttavia non senza quella fuggevole sensazione che si tratti solo di apparenza; e forse qualcuno come me si ricorderà di avere talora esclamato con successo per farsi coraggio nei pericoli e negli spaventi di un sogno: 《è un sogno! Voglio continuare a sognarlo!》..”   Che la teatralità un po' goffa ed enfatica di tutte le tristi "Melinda" da Interiors in poi sia lo sberleffo che dà scacco matto al dramma, alla fuga irrazionale dell'uomo?

C'è però una categoria a parte di film alleniani in cui i confini sfumano pericolosamente; il jazz e il vaudeville, la pura meraviglia del cinema, i primi amori, le locandine ingiallite, la madreperla dei lungomare: il bambino che fu Woody Allen prende di prepotenza il sopravvento sul New Yorker ipocondriaco e sogna nella sala buia. Film fra i suoi più magici e sentiti, sfociano puntualmente nei risvegli più dolorosi. È così per pietre miliari come Radio Days e La rosa purpurea del Cairo. È così (nei due secondi di un occhiolino allo spettatore) per il sottovalutato La Maledizione dello scorpione di giada. È così anche per La ruota delle meraviglie. Si veda ad esempio Coney Island, luogo poco comune della Città che non Dorme Mai - un tempo onnipresente e ora oggetto di poche miratissime incursioni. Il ritratto più celebre è in I Guerrieri della Notte (1979) di Walter Hill. Difficile immaginare due film più diversi, eppure..casa dei Guerrieri, loro culla, fine del nòstos metropolitano ma anche luogo di un'ultima insidia e di una decadenza tangibile. Retrodatiamo agli anni '50 di una cartolina di villeggiatura, modellata nel pan di zucchero della fotografia di Vittorio Storaro: i conti tornano. E poi il proletariato, i bisticci, la locandina di Winchester '73. È decisamente uno di 'quei' film.

Ma se questi alimentano il sogno fino alla fine prima di calare la scure, mentre altrove (Anything Else, Basta che funzioni) il costante ammiccare mantiene vigile la platea, La ruota delle meraviglie percorre la terza via e gioca su più scacchiere contemporaneanente. Il bagnino-drammaturgo-deus ex machina di Justin Timberlake scivola fra il ruolo di narratore e quello di protagonista, fra i rapporti autentici e la loro elaborazione letteraria; l'attrice fallita Kate Winslet annaspa nella morsa del Fato cambiando forma come un Proteo che accetta grado a grado la corruzione pur di dirsi padrone di sè. Poi il simbolo promesso, il piccolo piromane che fissa la distruzione in cerca di chissà cosa e "rischia di rovinarsi la vista" a forza di fissare allo stesso modo lo schermo del cinema. È così (molto più che parlando in macchina) che si sfonda la quarta parete e si aggiunge l'ennesima pedina, lo spettatore; che vorrebbe abbandonarsi al flusso di questo romanzo popolare per quanto tragico sia, bearsi dei “misteriosi omicidi” che promette, ma trova il rosso cremisi di Storaro a invadere come una sorta di glitch ogni inquadratura di questa bomboniera. Ostinatamente, arbitrariamente, in maniera spesso volutamente antiestetica. Dovrebbe sapere, lo sa, che lo schermo brucia. Ma si abbandona al bacio. Il sipario cala ovviamente in silenzio, senza alcuna gratificazione. Viene fuori che a livello dell'enfasi e della schematicità c'era sempre stato il pubblico, Lui era fuori a guardarlo; l'ultima pedina. Il bimbo dai capelli rossi che fa cadere il cerino e lascia gli occhi fra le fiamme.