Prima di tutto, non sottovalutiamo le conseguenze dei cognomi. Franco Rossi (all’anagrafe Francesco) aveva in dote il più diffuso d’Italia, quello di cui possono fare a meno Vasco e Valentino. Con una “esse” in meno, a Francesco Rosi (per gli amici Franco) è andata molto bene. Meno celebre e celebrato, anche Franco Rossi è stato regista, per oltre quarant’anni attivo al cinema e poi in televisione. Morto nel 2000, il 28 aprile avrebbe compiuto cento anni. Non si tratta di rivalutare un’opera per onorare l’anniversario, ma di ripensare la carriera di una figura finita nell’oblio, non marginale come si potrebbe credere sfogliando i testi sacri sul cinema italiano e constatando l’assenza di monografie o approfondimenti. Diciamolo pure: un regista dimenticato, in fin dei conti più trascurato che trascurabile.

Eccentrico e sfuggente, poco riconoscibile per essere incluso nel novero dei campioni della sua generazione, quasi sempre nascosto o sulla scia di qualcuno. E così spesso non si ricorda che c’è lui dietro Il seduttore (1954), prima tappa dell’avventura di Alberto Sordi con le trasformazioni dell’italiano medio piccolo borghese, e il pasoliniano Morte di un amico (1959), dentro le miserie umane dei ragazzi di vita, da non confondere con le più studiate collaborazioni tra il poeta e Mauro Bolognini. O non si distingue i rimossi La moglie bambina (in 3 notti d’amore, 1964) o Non faccio la guerra, faccio l’amore (1966) da altre commedie di Pasquale Festa Campanile. E non si evita di sottolineare la sporadica ma sincera attenzione ai ragazzi – dal pudico, crudele ma universale Amici per la pelle (1955) al televisivo Un bambino di nome Gesù (1987) – per definirlo un surrogato di Luigi Comencini.

Insomma, che regista è stato il fiorentino Rossi? Privo d’identità? No. Medio? Vediamo. Sicuramente né formalista né calligrafico. Un viaggiatore, questo sì: la Polinesia del mitico Odissea nuda (1961), esplorazione esotica ed erotica di un intellettuale in crisi, tra i più massacrati dalla censura; gli Stati Uniti di Smog (1962), apologo sull’alienazione e contro il mito americano, e dell’anodino Come una rosa al naso (1975); Rio de Janeiro in Una rosa per tutti (1966); il villaggio caraibico dove operano i missionari Terence Hill e Bud Spencer nell’ottimo Porgi l’altra guancia (1974, scritto dall’amico Rodolfo Sonego, altro grande viaggiatore); l’Australia nel fiacchissimo L’altra metà del cielo (1977).

Professionista serio e affidabile tanto da essere scelto – pratica comune dell’epoca – quale regista-supervisore di alcuni esordi (il fallimentare La passeggiata, 1953, di Renato Rascel; il corale bozzetto comico-sentimentale Tutti innamorati, 1959, di Giuseppe Orlandini) e poi producer per Dino De Laurentiis, lavora con chiunque: dai divi decaduti del regime (Fosco Giachetti e Doris Duranti nello scialbo esordio, il noir americaneggiante I falsari, 1951) a tutti i colonnelli della commedia all’italiana, i sex symbol e le star internazionali. Introvabili alcuni suoi film, come Amore a prima vista (1958), tipica coproduzione italo-spagnola, o l’oscuro Calypso (1958), documentario sulle Antille nel solco di Magia verde e Continente perduto. Perfino il tardo tv movie Il giovane Pertini (1993) ebbe problemi, ostacolato dalla vedova del presidente e disponibile solo dal 2010. Relegato per qualche tempo agli sketch dei film ad episodi, non di rado tuttavia piuttosto interessanti come nei casi del temerario Cocaina di domenica (in Controsesso, 1964) e del perfido Il complesso della schiava nubiana (in I complessi, 1965), e però capace di exploit che non somigliano a niente – in primis i maledetti, invisibili Odissea nuda e Smog – nonché tra i primi assieme a Vittorio Cottafavi ad intuire davvero le possibilità del mezzo televisivo.

E, infatti, anticipando l’ondata di qualche lustro dopo, trova lo spazio ideale nel piccolo schermo grazie all’epocale sceneggiato Odissea (1968), il viaggio dei viaggi, col senno di poi una tappa quasi naturale del suo percorso ramingo. Il primo dei suoi eterogenei kolossal: seguono l’epica fondativa di Eneide (1971) e quella del quotidiano di Storia d’amore e d’amicizia (1982), Il giovane Garibaldi (1974) con Maurizio Merli e la sontuosa decadenza di Quo vadis? (1985). Forse è proprio qui che riesce a trovare lo spazio ideale, dopo aver chiuso col cinema nel ’77 un’attività discontinua e solo occasionalmente davvero personale. Non possiamo, allora, che chiudere questo omaggio citando il meglio dato dall’imprevedibile Rossi al cinema, un coming of age in cui trionfa la delicata sensibilità e il solido mestiere di questo regista tutto da riscoprire: Giovinezza, giovinezza (1969), struggente capolavoro che incrocia suggestioni di Jules e Jim sullo sfondo di una Ferrara sotto il regime splendidamente fotografata in b/n da Vittorio Storaro.