Difficile non trovare un regista americano disposto a lodare la generosità ed ammirare il magistero di Jonathan Demme, che ci ha lasciato quasi un anno fa. Brady Corbet e Barry Jenkins lo ricordano con l’affetto dei figli putativi. Wes Anderson e Alexander Payne ammettono di copiarne i famosi primi piani. Richard Linklater, se non l’erede, è quantomeno un magnifico seguace. E poi Paul Thomas Anderson. Quando ebbe l’onore di aiutare il mentore già malato Robert Altman in Radio America (“Se la gente vuole chiamarmi ‘Little Bobbie Altman’ – affermò nel 2003 – non ho alcun problema”: dopotutto, Magnolia non è forse una cover più sregolata di America oggi?), si fece visibile la sua annessione a quella genealogia spirituale degli autori anticonformisti che comprende anche Demme. Ricevendo un premio dedicato proprio a Demme appena qualche settimana fa, ha dichiarato, sul calco del mitico mantra di Billy Wilder in gloria di Ernst Lubitsch: “In quei momenti in cui sei in una situazione seccante, devi dire a te stesso: ‘Cosa farebbe Jonathan?’”. Una splendida dichiarazione d’amore. Peraltro non occasionale: una volta, alla domanda su quali registi l’avessero più influenzato, rispose: “Jonathan Demme, Jonathan Demme, Jonathan Demme”.

Ma quanto, nei fatti, l’opera di PTA deve a quella di Demme? Di primo acchito, verrebbe da dire che i due sono virtuosi della regia, ovviamente nell’accezione migliore. Entrambi sanno muovere la macchina da presa esercitando lo stupore dello spettatore ed invitandolo in un’immersione nella storia che passa anche attraverso un’esperienza cinefila mai stagnante. Poi, il saper filmare la musica: Demme ha diretto seminali film-concerto e documentari (Talking Heads, Neil Young, Enzo Avitabile…); Anderson non solo realizza videoclip ma ha trovato in Johnny Greenwood un prezioso sodale capace pure di suggerirgli il suo primo doc musicale: Junun, quasi una jam session, con un titolo così simile a quello di un film di Altman, Follia d’amore (Fool for Love)….

Ancora: lo sguardo indipendente. Con un approccio analogo a quello di Steven Soderbergh, Demme aderiva ai progetti più disparati, dal remake postmoderno al doc politico passando per la screwball, con la medesima, ostinata coerenza; Anderson, anche produttore, declina la sua autonomia nella scelta oculata di progetti sempre in una prospettiva larger than life, praticata assai di rado dal maestro. Dunque, la versatilità: nessun film di Demme somiglia a se stesso. Anche in presenza di ingenti capitali, il suo metodo non cambia: la questione non è il budget ma l’uso del budget (Roger Corman docet). Oggi questo cinema forever young, curioso, dinamico non perde un atomo di contemporaneità: e sembra continui a danzare alla maniera del goffo Jeff Daniels in Qualcosa di travolgente e ad accettare le proprie fragilità come nel catartico finale attraverso Springsteen di Dove eravamo rimasti. Tutti i personaggi che occupano lo spazio, seppure per pochi istanti, meritano uguali attenzioni: guardano in macchina per cercare al di là dello schermo qualcosa che somigli al loro disadattamento. Anche – se non soprattutto – in virtù della normalità che si esalta, per esempio, accanto ad una lavastoviglie.

Un’empatia che Anderson condivide – pur declinata diversamente ma comunque mai confusa con la compassione – sia negli affollati affreschi corali sia quando isola due o tre anime difettose nello straordinario delle loro ossessioni: un’apocalisse imminente, l’incipiente capitalismo, la fondazione di un nuovo culto... Se i punti di contatto tra le due opere non risiedono in che cosa raccontano, si può però dire che vi siano nel come. Spericolato acrobata in equilibrio tra caos e ordine, Anderson evita il manierismo dei virtuosi (nel senso peggiore). E, nel suo cinema sempre alla ricerca dei padri, ha dedicato Il filo nascosto proprio a Demme. Ma in fondo aveva già detto tutto quando Joacquin Phoenix in The Master fuggiva in moto evocando Jason Robards in Una volta ho incontrato un miliardario, verso un imprecisato destino che forse si chiama semplicemente vita.