William si guadagna da vivere giocando a carte, da un casinò all'altro. Si sposta come un nomade, ben attento a non farsi sgamare per le sue inusuali abilità nel contarle, partita dopo partita. Ha avuto parecchio tempo per imparare a farlo bene, in un carcere militare, dopo la condanna per le vessazioni inflitte ai prigionieri a Abu Ghraib, contrariamente ai superiori che quelle torture le avevano ordinate. Ha anche imparato a leggere la paura delle persone, vantaggio considerevole quando si è seduti a un tavolo verde. Vive così, sottotraccia, accontentandosi di vincite modeste per restare invisibile agli occhi dai controllori dei casinò. Poi, la sua omeostasi instabile viene turbata da una broker del settore, che intuito il suo talento vuole ingaggiarlo per i grossi tornei, e dal figlio di un vecchio commilitone, intenzionato a mettere in atto una vendetta dalla quale lui si sta trattenendo.

Ne Il collezionista di carte, presentato al festival di Venezia, Paul Schrader ritrae il mondo del gioco d'azzardo, similmente al suo sodale Martin Scorsese – qui produttore – come ha già ritratto a più riprese altri mondi basati sul denaro: con poca simpatia ma senza manifesta ostilità, come se ambienti e situazioni non fossero che occasioni per mettere alla prova l'animo umano. Muovendosi fra ambienti falsi come una banconota da tre dollari, fotografati con luci calde e vischiose, il William dell'ottimo Oscar Isaac fluttua cercando di fare il bene, di redimere il futuro dal prologo del passato, quantomeno per chi ha più strada davanti di lui. Ma i suoi metodi di persuasione e instradamento non sono affatto diversi, portando così inevitabilmente la catena degli eventi a perpetuarsi.

In una realtà in cui gli unici disposti a rivestirsi della bandiera a stelle e strisce e ad acclamare a gran voce “U.S.A.!” sono un gruppo di ucraini che hanno fatto fortuna al tavolo da gioco, il pensiero di Schrader continua ad affannarsi sul tema della colpa e della redenzione, irresoluto e suggestivo sulle cause del male: per dirla alla Sartre, William non fa ciò che vuole ma è tuttavia responsabile di quello che è, e deve riconoscere che qualcosa dentro di lui lo rendeva proprio portato per il ruolo di aguzzino ad Abu Ghraib; al tempo stesso, anche il mondo è quello che è, e in esso gli individui si ritrovano in balia, se non del fato, quantomeno delle circostanze, immersi in dilemmi crudamente esistenziali dove non trova spazio nemmeno la spiritualità al centro del precedente First Reformed – La creazione a rischio (2017).

Continua invece la fascinazione di Schrader per il finale di Pickpocket di Robert Bresson (Dopo American Gigolo, 1980, e Lo Spacciatore, 1992), così come l'idea di poter trovare un amore puro, salvifico, non solo a prescindere dalle proprie mancanze ma anche dove non ci si sarebbe aspettato di trovarlo: in una ricca altoborghese annoiata, in una venditrice di droga poco incline al romanticismo, e questa volta in una sgamata professionista del business dell'azzardo, dai modi spicci e dalle unghie lunghe come artigli. Anche se poi a fare da sfondo al loro idillio non può esserci altro che lo scenario più stupefacente, artificioso e sublimamente kitsch che possa esistere: è l'estremo tentativo di ritrovare qualcosa di vero, quando si è ricoperti e soggiogati dal falso.