Persino tra cinefili appassionati, Il colore del melograno (1966) potrebbe non essere per tutti. Siamo abituati a vedere film che ci raccontano delle storie, in cui lo stile è prima di tutto al servizio della narrazione, a un cinema che alla Pasolini potremmo definire “di prosa”. Ma Sergej Paradžanov, convinto sostenitore della poesia nel cinema, così come il suo grande amico Andrej Tarkovskij, ha tracciato una strada del tutto diversa. Così diversa da non poter essere, a suo dire, percorribile da nessun altro se non lui.

Paradžanov, nato in Georgia nel 1924 sotto il regime sovietico da genitori armeni, celebra la sua cultura d'origine attraverso quello che è considerato il più grande poeta trovatore armeno del Settecento, Sayat Nova. Paradžanov ne ripercorre l'esistenza attraverso una serie di tableau vivant corrispondenti alle diverse fasi della sua vita, dall'infanzia alla morte, ognuno introdotto da alcuni versi del poeta. Le immagini sono lussureggianti eppure non barocche, orchestrate in una miriade di dettagli anche opulenti ma sempre in un calibrato equilibrio compositivo.

Le azioni dei personaggi non hanno nulla di letterale e quotidiano, sono piuttosto allegoriche e rituali. L'utilizzo stesso degli attori è singolare, con la musa del regista Sofiko Chaureli impegnata in sei diversi ruoli, anche maschili. Gli oggetti di scena assurgono a simboli complessi, geometrie organizzate nello spazio visivo in maniera immaginifica, derivati misteriosi sia della cultura armena che dell'immaginazione surrealista dell'autore. I dialoghi risultano quasi inesistenti, mentre il sonoro riveste un ruolo importante, con canti e musiche della tradizione armena e rumori usati come punteggiatura filmica. Per alcuni, si tratta di una delle più magniloquenti esperienze visive mai vissute sullo schermo, ed è il motivo per il quale Il colore del melograno viene da molti considerato un capolavoro, un emozionante punto di incontro fra cinema e videoarte. Ad altri, può sembrare una involuta e estetizzante pedanteria autoreferenziale.

Se di Paradžanov si può ammirare o non ammirare lo stile unico, resta struggente il suo epilogo di artista: un film così, che appare spiazzante ora, in epoca di realismo socialista venne considerato deviante e fortemente inviso al regime sovietico. L'espressione artistica di Paradžanov fu limitata in ogni modo, iniziò per lui un periodo tragico nel quale conobbe anche la condanna ai lavori forzati per lunghi anni con imputazioni quasi certamente fabbricate, e gli risultò di fatto impossibile girare altri film sino agli anni '80, a pochi anni dalla morte. Difficile, nella sensibilità contemporanea, concepire un cinema meno politico del suo, eppure Il colore del melograno rimane una delle pietre miliari del cinema del dissenso di quegli anni. Forse ci è solo difficile concepire che la resistenza umana possa esprimersi attraverso la forza pacata della poesia.