Il viso riverso in una ciotola di latte, a lasciare intravedere solo gli occhi: uno sguardo denso di frustrazione ma fiero. Il disturbante ingurgitare, senza la pausa di un respiro. Così conosciamo Verida, giovane ragazza della Mauritania che è stata promessa in sposa e ha iniziato il suo ‘gavage’, l’alimentazione forzata, pratica alla quale le donne sono sottoposte per aumentare di peso entro le nozze e piacere ai futuri mariti. Sospesa tra antiche tradizioni e nuove prospettive, Verida affronterà il lungo e intenso cammino evolutivo dall’oggettivazione alla soggettivazione femminile, anche a costo della propria vita.

Opera d’esodio di Michela Occhipinti -già autrice di numerosi documentari - Il corpo della sposa risente degli stilemi tipici del documentario ma sfrutta i meccanismi della fiction per narrare una storia che non si esaurisce entro i confini della testimonianza etnografica. Pare, piuttosto, un pretesto narrativo per veicolare significati universali, una riflessione che attraversa la contemporaneità e che coinvolge tanto il mondo orientale quanto quello occidentale. Invero, la narrazione si colloca all’interno del panorama mediatico post femminista, accarezzata da una sensibilità che caratterizza la rappresentazione di genere nel cinema, in accordo con alcuni topoi stabili: tra questi, la femminilità come proprietà corporea, l’autodisciplina, la libertà di scegliere, la tensione verso l’empowerment.

L’attenzione a una realtà a noi sconosciuta permette di prendere le distanze dalla dimensione socioculturale e di attivare una lettura critica che lentamente porta alla luce problematiche che, in realtà, ci riguardano da vicino. La regista, senza calcar la mano sulla denuncia politica, fa dei suoni e delle immagini filmiche potenti provocazioni circa la pervasività dell’estetica. Qui è insita la politica dei corpi, nel nauseabondo ingozzamento, nei riti prematrimoniali, dalla scelta del velo nuziale alla manicure nel centro estetico in cui, non a caso, Verida lavora. E ancora, all’opposto della pratica del ‘gavage’, i paradossi della società occidentale: apparentemente evoluta, propone la chirurgia estetica e la liposuzione, l’uso di creme per lo sbiancamento del viso.

Colonna portante, ça va sans dire, i legami femminili. Gli uomini sono relegati ai margini, seppur il fagocitante fantasma del patriarcato sia presente lungo tutto l’arco narrativo. Il confronto generazionale è lo specchio di tale contrasto. La madre e la nonna della protagonista, severe matriarche, sono ancora vincolate ai precetti di una società ormai decadente (ma persistente) che manipola l’identità attraverso il possesso dei corpi, spingendosi sino al sacrificio delle proprie figlie pur di esercitare il controllo su esse.

Verida e le amiche abbracciano il futuro e intuiscono l’avvento di una forma di pensiero nuova, che fa dell’autodeterminazione femminile il suo simbolo. Non resta loro che gettare il velo nero dell’oppressione nel vento e dar voce alla propria volontà, non importa quale sia lo scotto da pagare.

Il corpo della sposa non è un’opera perfetta. Sembra perdersi nella sospensione tra documentario e fiction, carente di una cifra stilistica virtuosa. Forse avrebbe potuto decostruire, con maggiore complessità, i microcosmi femminili; sminuzzarli e sviscerarli per restituirci quel “qualcosa in più” che non si limiti a una fotografia dell’oggi. Tuttavia, in un periodo storico in cui le politiche dei corpi sono fonte di forti contraddizioni (basti pensare al body shaming e il controllo delle nascite), si rivela coraggiosa, sincera, sintomo di un processo di graduale mutamento sociale, tutto al femminile, che non osa arrestarsi.