Prima ancora della New Hollywood, c’è stato un pugno di registi che hanno preceduto questa radicale trasformazione, rimodernando il cinema in un ampio lasso di tempo che inizia negli anni Cinquanta e procede fino ai Sessanta e ai Settanta. Parliamo di autori come Samuel Fuller, Robert Aldrich e – poco più avanti – Sam Peckinpah, che già nel 1961 e nel 1962 dirigeva due western anti-epici. Samuel Fuller è stato uno dei più importanti rinnovatori del cinema americano, con una vasta filmografia che si estende dal 1948 al 1989: un regista che ha rivoluzionato i generi dal loro interno, trasformando i suoi film in opere d’autore marcatamente personali, e creando un nuovo modo di fare cinema. E lo ha fatto inserendo una spiccata componente psicologica, violenta, visionaria, sperimentale e anticonformista in tutti i generi che ha frequentato, dal war-movie al western, dal thriller al noir, e confezionando film che si opponevano in un certo senso al politically correct di Hollywood. Perché Fuller era un indipendente, uno che agiva fuori dagli schemi e fuori dal coro, tanto nella produzione quanto nella regia, abituato a scrivere e produrre da solo i propri film, sempre scomodi nella forma e nel contenuto e in anticipo sui tempi.
Nelle Majors americane, per esempio, un film così crudo, scioccante e sperimentale come Il corridoio della paura (Shock Corridor, 1963recentemente uscito in DVD in versione restaurata), – opera rivoluzionaria e seminale per tutto il thriller moderno – non sarebbe mai potuta nascere. La vicenda, scritta dallo stesso Fuller, è quella del giornalista Johnny Barrett (Peter Breck), che per vincere l’ambito Premio Pulitzer vuole a tutti i costi ottenere uno scoop esclusivo, risolvendo un caso di omicidio avvenuto all’interno di un manicomio, dove è stato ucciso un paziente. A tale scopo, con la complicità dello psichiatra e della fidanzata Cathy (Constance Towers), che si spaccia per sua sorella, finge di essere a sua volta un malato di mente che ha avuto rapporti incestuosi con lei, per farsi internare e ascoltare i tre testimoni chiave: un reduce della guerra di Corea passato dalla parte dei comunisti, un nero sostenitore del Ku Klux Klan e uno scienziato regredito allo stato infantile. I loro racconti gli permettono di fare luce sul delitto, ma la sua mente comincia a cedere fino a sprofondare nella follia.
Forse nessuno, a memoria, prima di Fuller aveva ambientato l’intera storia in un manicomio, anticipando in un certo qual modo il più celebre Qualcuno volò sul nido del cuculo. Certo, si tratta di film diversi, poiché quello di Milos Forman è un dramma, un film di denuncia sulle condizioni degli istituti psichiatrici, mentre Fuller bilancia l’aspetto psicologico con la storia gialla. Ma la detection, con il giornalista che scopre man mano vari dettagli sull’omicidio, lascia spesso e volentieri il posto alla messa in scena di una realtà orribile. Il manicomio è un vero co-protagonista insieme all’azzardato reporter, poiché il film si svolge quasi interamente al suo interno, fra malati di mente, infermieri sadici e trattamenti disumani – come l’elettroshock e la camicia di forza – che fanno precipitare anche Barrett nella pazzia. Non a caso, il film si apre con un’inquadratura sullo “shock corridor” del titolo originale, con le sventurate anime perse in preda alla follia: quel corridoio che sarà il luogo-cardine dell’azione narrativa, insieme alle stanze e ai vari reparti che non sono lontani dai luoghi di tortura medievali.
Il cinema di Samuel Fuller non lesina sulle scene di violenza, fisica o psicologica: nel noir La vendetta del gangster fa uccidere una bambina, nel western La tortura della freccia sottopone il protagonista al supplizio del titolo, nei war-movie rappresenta le battaglie in tutto il loro crudo realismo, nel thriller/noir Il bacio nudo mette in scena un pedofilo (un argomento tabù in quegli anni), giusto per fare alcuni esempi. Così, ne Il corridoio della paura c’è una violenza che talvolta si manifesta palesemente – per esempio nei cruenti scontri fra i pazienti o con gli infermieri, nell’aggressione di Barrett per mano di un gruppo di donne ninfomani, o ancora nella lotta finale del protagonista con l’assassino – mentre altre volte rimane sottesa ma sempre vibrante, una violenza psichica pronta a esplodere in ogni scena, come nelle urla disperate dei degenti.
Il corridoio della paura è un film che crea disagio, perché mette in scena la paura di impazzire: per questo motivo, Fuller concede ampio spazio ai primi piani sui volti alienati e allucinati dei pazienti ma anche del giornalista, che sprofonda sempre più in violente allucinazioni (vedasi il temporale nel corridoio), alienazioni e mutismo, fino alla completa follia. Nella storia fanno capolino anche altre tematiche scottanti: l’incesto (seppure fittizio) con l’immaginaria sorella, descritto in tutta la sua morbosità, uno sguardo cinico e critico sulla psichiatria e la psicanalisi, oltre a temi cari al regista come la guerra e il razzismo, che emergono dai racconti degli interrogati.
Come il contenuto, così anche lo stile è aggressivo e sperimentale. Fuller adotta una poetica d’avanguardia – forse ancora di più che in altri suoi film – per cui Shock Corridor è fotografato in un bianco e nero molto contrastato, quasi espressionista in certi momenti, con le luci che fendono il buio come una lama, mentre gli archi della colonna sonora stridono in modo teso, ossessivo e dissonante. Ma lo sperimentalismo si spinge anche oltre, con le inquadrature che si sovrappongono in dissolvenza nei sogni, e gli inserti a colori durante le allucinazioni dei testimoni. Tutto – contenuto e forma – è sospeso fra realtà e alienazione, tutto è proteso verso un abisso di follia, fino alla disperata conclusione, e il film pone un interrogativo fondamentale: fino a dove può spingersi la mente umana?