La filmografia di Pier Paolo Pasolini, così come il suo pensiero, è un magma vulcanico in continuo divenire, ma con una coerenza di fondo che non viene mai a mancare. Come si diceva a proposito di Porcile, il suo corpus cinematografico si evolve in vari momenti, senza soluzione di continuità: se pensiamo al solo decennio degli anni Sessanta, Pasolini passa da film quasi neorealisti alla messa in scena di una personalissima “religiosità laica” (chiamiamola così), fino alla critica della società borghese, passando per la rivisitazione di tragedie greche e una corposa produzione documentaristica.

Una cesura abbastanza netta la troviamo invece con il passaggio agli anni Settanta, quando Pasolini abbandona – almeno in parte – lo stile e la narrazione così spigolosi e criptici (abbastanza ostici per il grande pubblico) che abbiamo conosciuto nel decennio precedente, per abbracciare una narrazione più popolare, con la cosiddetta “Trilogia della Vita”: parliamo de Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), un trittico di film tanto simili nei contenuti e nella struttura letteraria ed episodica quanto differenti per stile e ambientazione. Tre film che giungono in un arco di tempo abbastanza breve, e ai quali possiamo aggiungere un ideale quarto capitolo con Storie scellerate (1973), diretto dal fedele collaboratore Sergio Citti ma sceneggiato dallo stesso Pasolini, il cui tocco si percepisce chiaramente nella narrazione di racconti piccanti dove trovano spazio erotismo e morte nella Roma papalina.

Trattasi infatti di film accomunati da una rappresentazione gioiosa e spinta del sesso e della vita, ma con una forte componente ironica e salace che non disdegna incursioni nella morte e nella satira anti-borghese e anti-clericale, in conformità a quel piacere di scandalizzare che dicevamo nell’analisi di Porcile. Una trilogia a cui farà da contrappunto feroce e tragico il film-testamento di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), che nelle intenzioni dell’autore – poi interrotte dalla sua morte – avrebbe dovuto rappresentare il primo capitolo di una cosiddetta “Trilogia della Morte”. I tre film della “Trilogia della Vita” (a differenza di Storie scellerate, i cui racconti sono partoriti dalle menti di Citti e Pasolini) sono tratti dalle eponime opere letterarie che danno il titolo ai film. Il Decameron inaugura la trilogia, ed è forse il più conosciuto, nonché ispiratore di numerosi film di genere (i cosiddetti decamerotici), ma che con la regia di Pasolini si innalza al di sopra del semplice cinema popolare per diventare un’opera d’autore con tutti i crismi.

Prodotto da Franco Rossellini e dalla PEA di Alberto Grimaldi, Il Decameron mette in scena dieci novelle provenienti dall’omonima opera letteraria di Giovanni Boccaccio, uno tra i più importanti scrittori del Trecento italiano, che proprio con il suo Decameron contribuì in modo decisivo alla nascita della prosa narrativa nel nostro Paese. L’opera di Boccaccio è costituita da cento novelle (cioè racconti brevi), per cui Pasolini – nel volerla mettere in scena – dovette effettuare per forza delle scelte, selezionando dieci storie che egli riteneva particolarmente significative per la narrazione e i contenuti, e trasponendole al cinema – come è stato detto da vari studiosi pasoliniani – “per il puro piacere di raccontare”, con la sceneggiatura scritta da lui stesso.

Nelle intenzioni originarie di Pasolini, Il Decameron doveva contenere più novelle, dunque durare di più, e avere una struttura più complessa, ma per una precisa scelta artistica decise di ridurle a dieci, le quali rendono però magnificamente lo scopo del Nostro: quello di esaltare “un eros innocentemente spregiudicato e scandaloso” in opposizione “all’abbrutimento della massificazione consumistica e della Tv” (leggiamo nelle pagine del Centro Studi Casarsa dedicato a Pasolini), tutti temi su cui bisognerà tornare. Il Decameron si apre con il personaggio di Ciappelletto (Franco Citti) – poi ricorrente – mentre compie un omicidio e nasconde il cadavere, e i racconti si susseguono l’un l’altro in modo paratattico, senza una vera cornice narrativa, se non col periodico ritorno di Ciappelletto prima e del pittore poi.

Il giovane Andreuccio (Ninetto Davoli) viene imbrogliato due volte, prima da una donna e poi da due ladri, ma finisce con l’impadronirsi di un prezioso rubino. All’interno di un convento, una suora e la badessa vengono colte in flagrante mentre intrattengono rapporti carnali. Masetto, per soddisfare i suoi bisogni sessuali, si finge sordomuto e si fa assumere in un convento, per poi sedurre tutte le suore. Peronella giace a letto col suo amante quando il marito fa inaspettatamente ritorno, per cui nasconde il giovane all’interno di una giara e finge che si tratti di un compratore che la sta pulendo. Ciappelletto, dopo una vita dove ha commesso ogni genere di peccato, sta per morire, e sul letto di morte si prende gioco del prete confessore fingendo di essere stato un bravo cristiano.

Il migliore allievo di Giotto – interpretato dallo stesso Pasolini e poi ricorrente in vari intermezzi – deve affrescare la chiesa di Santa Chiara a Napoli. Caterina dorme sul balcone per accogliere il suo spasimante, ma quando viene colta in flagrante dai genitori è costretta a sposarlo. Il fidanzato di Lisabetta, una ragazza succube dei fratelli, viene ucciso dai tre uomini, e le appare in sogno indicando dove è sepolto il suo cadavere. Don Gianni cerca di sedurre la moglie di un amico con uno stratagemma, convincendolo che può trasformarla in una cavalla toccandola e possedendola carnalmente. Due amici fanno un patto per cui il primo che muore deve comparire in sogno all’altro e rivelargli com’è l’aldilà. Infine, si torna all’allievo di Giotto, che dopo aver sognato la Madonna (Silvana Mangano, non accreditata) trova la giusta ispirazione per concludere il suo affresco.

“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”, si chiede il pittore nell’ultima inquadratura del film, prima che compaia all’improvviso – così come improvvisamente si passa da una novella all’altra – la parola “fine”. Una chiosa ermetica, che riflette sul senso stesso dell’Arte intesa nel suo significato più ampio, e che dimostra come il pensiero di Pasolini sia sempre arguto e profondo anche quando tratta argomenti apparentemente leggeri. Ma, vedendo i capolavori a cui il Nostro ha saputo dare vita, non si può che dare torto all’allievo di Giotto, poiché per noi spettatori diventa un piacere contemplare quanto egli ha trasposto sul grande schermo. È quel “piacere di raccontare” che si mescola con il “piacere di scandalizzare” sul quale siamo più volte tornati (poiché il sesso e le nudità sono il fil rouge di quasi tutti i racconti), e che con Il Decameron raggiunge una delle vette narrative e stilistiche pasoliniane, più vicino alla sensibilità di uno spettatore medio ma al contempo di elevato valore culturale.

Perché la trasposizione boccaccesca di Pasolini è, senza mezzi termini, un puro distillato artistico, dove il cinema “alto” (d’autore) convive felicemente con quello più “popolare” (cosiddetto di genere). Fin dall’origine letteraria, Il Decameron è d’ispirazione nobile, nonché un film d’arte profondamente personale, poiché Pasolini non si limita a trasporre pedissequamente quanto scritto dal Boccaccio, ma lo plasma secondo la sua poetica: a cominciare dall’ambientazione, che (pur mantenendo il contesto medievale del modello) da quella toscana predominante nell’opera letteraria si trasferisce nella Napoli popolare, un mondo che – come spiega Roberto Chiesi del Centro Studi Pier Paolo Pasolini – l’autore conosceva molto bene, e a cui era particolarmente affezionato.

In origine, infatti, solo tre novelle del Decameron di Boccaccio sono di ambientazione partenopea, mentre Pasolini rafforza la napoletanità della sua rivisitazione trasferendole tutte a Napoli. Come tipico di tutto il suo cinema, il regista si affida a un cast eterogeneo, nel quale convivono attori professionisti (quali i suoi attori-feticcio Citti e Davoli) con altri (che sono poi la maggior parte) non professionisti, presi dalla strada, volti comuni che – specie nella Trilogia – funzionano a meraviglia nella messa in scena di una narrazione popolare. Quasi tutti i personaggi parlano con accento napoletano, talvolta addirittura in un dialetto stretto che può rendere non semplice la comprensione: un voluto effetto a contrasto, uno spaesamento, rispetto alla più nobile lingua toscana del Boccaccio, che sarebbe poi diventata la lingua letteraria per eccellenza e la base della futura lingua italiana.

Tutte le novelle rivisitate (ad eccezione di quella dell’allievo di Giotto) hanno come filo conduttore, o come elemento scatenante, il sesso e l’erotismo (compreso un accenno all’omosessualità nel personaggio di Ciappelletto), con un’abbondante esibizione di nudità maschili e femminili che gli comportarono un processo e numerosi problemi in sede di censura – nonostante il film abbia riscosso il plauso della critica vincendo l’Orso d’Argento al Festival di Berlino. Ma l’erotismo del Decameron pasoliniano non è quello sporco e animalesco di Porcile e di Salò, non è quello incestuoso di Edipo re, né quello contestatario e anti-borghese di Teorema: come si diceva in precedenza, l’eros decameroniano è “spregiudicato e scandaloso”, con un’innocenza e un’ingenuità di fondo che rendono l’opera un vero e proprio inno alla vita, un canto alla gioia di vivere e ai piaceri del sesso, privati di ogni finto moralismo (in conformità all’intero pensiero pasoliniano).

Un film dove il gusto di Pasolini per la provocazione e lo scandalo raggiunge uno dei suoi livelli più alti, unendosi allo spirito boccaccesco, e nel frattempo il Nostro non rinuncia a un’aspra satira contro il clero e la borghesia – da sempre i suoi bersagli preferiti. Il sesso è rappresentato senza inibizioni, come pura estasi dei sensi, con dovizia di particolari sulle nudità maschili e femminili e focosi amplessi, spesso peccaminosi e proibiti come quelli di Masetto con le suore o di Peronella con l’amante: in un certo senso, Il Decameron (ma anche gli altri due film della Trilogia) mette in scena una sessualità diversa – diciamo pure opposta – rispetto a quella di altre opere di Pasolini.

Se in film come Porcile e Salò il sesso è un elemento mortifero, qua diventa invece vitale e salvifico, nonostante Pasolini lo mescoli ancora con la morte, che è un altro tema ricorrente del film, ma in un senso differente: con un coraggio che possiamo definire blasfemo e oltraggioso (ma ricordiamo che il cinema deve essere privo di moralismi), l’autore qua si fa beffe anche della morte, rappresentandola con brio e come un elemento con cui scherzare. Basti pensare a Ciappelletto, bestemmiatore, assassino e pedofilo, che sul letto di morte si finge un pio cristiano, e viene poi sepolto in una cripta dove è oggetto di peregrinaggi e venerazione; oppure al fidanzato di Lisabetta, ucciso dai fratelli per una sorta di antico e distorto codice d’onore, che le appare in sogno per indicare l’ubicazione del suo cadavere, poi decapitato dalla ragazza che conserva la testa in un vaso di basilico; oppure ancora all’ultima novella, quella di Tingoccio e Meuccio, che fanno una scommessa quasi scherzosa con la morte.

L’eros come elemento primigenio e fonte di piacere – accompagnato dal periodico apparire della morte – sarà ricorrente anche ne I racconti di Canterbury e ne Il fiore delle mille e una notte. Rispetto al Decameron, nel film tratto dai racconti di Geoffrey Chaucer (a sua volta debitore del Boccaccio), il sesso si accompagna a una corporalità più sporca, con peti e minzioni, e l’omosessualità è più esplicita; inoltre, dal punto di vista narrativo, c’è un’autentica cornice (poi ridotta da Pasolini in fase di montaggio), che mantiene comunque la sua struttura essenziale nel viaggio di Chaucer insieme ai pellegrini, il quale torna periodicamente introducendo le novelle. Il fiore delle mille e una notte, pregno di cultura araba e dunque di più difficile comprensione, contiene elementi estranei alla cultura occidentale dei due film precedenti – quali la presenza della schiava – e ha una struttura più lineare, dove all’interno della storia principale si inseriscono altre storie narrate dai protagonisti, fra eterosessualità e omosessualità, racconti verosimili e magie orientali.

Nel Decameron, l’erotismo è costantemente mescolato con il gusto salace per lo scherzo e la beffa, nel rispetto dello spirito di Boccaccio, che dà vita a memorabili scene ricche di ironia. Accade così che Andreuccio – con il volto simpatico di Ninetto Davoli – nel tentativo di sedurre una ragazza, finisca con l’essere raggirato, cadendo in una latrina e sporcandosi di escrementi, per poi unirsi a due ladri che lo rinchiudono nella bara di un alto prelato. Oppure succede che il finto sordomuto Masetto, esausto dopo aver sedotto tutte le suore, inizi a parlare, facendo gridare la badessa al miracolo pur di tacere lo scandalo e di tenerlo sempre con loro. E come non ricordare Peronella che viene posseduta carnalmente dall’amante mentre il marito si trova dentro la giara intento a pulirla? O Caterina sorpresa sul terrazzo con “l’usignolo” del suo ragazzo fra le mani? Ma anche Don Gianni che finge di trasformare la donna dell’amico in cavalla “attaccandole la coda”, cioè prendendola da dietro. Per non parlare di tutte le burle già citate che vengono fatte riguardo la morte.

Nel fluire dei racconti, convivono popolani e borghesi, frati e suore, personaggi simpatici e altri odiosi come Ciappelletto (Franco Citti, che negli altri due film della Trilogia interpreterà il diavolo), assassino e corruttore di minorenni (lo vediamo mentre adesca un ragazzino). Pasolini non rinuncia a una satira contro la borghesia (ricordiamo il ricco mercante interpretato da Guido Alberti e i due usurai) e soprattutto contro il clero, appoggiato dall’opera stessa del Boccaccio e da quello spirito anticlericale che animava molte opere letterarie del Medioevo: le suore sono sempre descritte in atteggiamenti peccaminosi – compresa l’unica novella narrata non visivamente ma per voce di un uomo in strada, in dialetto napoletano – e con scene di nudo che all’epoca dovettero provocare un notevole scandalo.

Il che è ancora niente rispetto a quanto farà ne I racconti di Canterbury, dove mette in scena un frate avido di ricchezze, e soprattutto – in una rappresentazione dell’inferno arricchita da un notevole gusto pittorico – i preti sono raffigurati come espulsi dal gigantesco ano di un diavolo. Nel Decameron, Pasolini – attraverso un sogno dell’allievo di Giotto, interpretato da lui stesso – raffigura invece, con un gusto visivo altrettanto riuscito, una sorta di Paradiso, un vero tableaux vivant dove la Madonna (Silvana Mangano) tiene in braccio Gesù bambino, attorniata da una schiera di angeli e santi: una visione che, dopo una lunga ricerca di ispirazione, gli consente di portare a compimento l’affresco, mentre i frati e i sagrestani festeggiano l’avvenimento nonostante la criptica perplessità del pittore.

Per ultimo – ma non certo in ordine di importanza – c’è da citare il ricchissimo comparto estetico, a cominciare dalle scenografie di Dante Ferretti e i costumi di Danilo Donati, che ripropongono una rappresentazione certosina del Medioevo, fra piazze animate dalla gente più disparata, vicoli, conventi e antiche case – per le quali il regista ha buon occhio nello sfruttare anche quanto messo a disposizione naturalmente dai quartieri popolari di Napoli. Pasolini ha potuto avere con sé il meglio dei tecnici dell’epoca, fra cui Tonino Delli Colli per la splendida e colorata fotografia, e il duo Nino Baragli e Tatiana Morigi al montaggio. Un discorso a parte fa fatto poi per la colonna sonora, curata da Pasolini con la collaborazione di Ennio Morricone, nella quale spiccano però le canzoni popolari napoletane.

A ulteriore conferma di un cinema popolare, “dal basso”, che riprende il gusto del regista per il popolo e gli umili, i quali si innalzano però ad autentico valore artistico.