Era il 1995 quando Bryan Singer, un regista americano semi-sconosciuto che aveva all’attivo un solo lungometraggio (Pubblic Access), diresse un film destinato a diventare uno tra i migliori e più influenti noir contemporanei, I soliti sospetti (The Usual Suspects). L’opera, che vinse due Premi Oscar fra cui uno alla miglior sceneggiatura, riscosse subito un successo quasi totalizzante di pubblico e critica, assurgendo ben presto allo status di cult-movie.
Il nome di Singer finì tra “quelli che contano” nel cinema hollywoodiano, anche se il regista finì per sprecare il suo talento dirigendo per lo più cinecomic, con le significative eccezioni di film come Operazione Valchiria e Bohemian Rhapsody. Tuttavia non raggiunse più l’apollinea perfezione de I soliti sospetti, che rimane – in una filmografia altalenante – una gemma dal valore inestimabile e intatto anche dopo 27 anni, una pellicola che fa ancora scuola in quel vastissimo genere che è il neo-noir: un film unico, di confine, a metà fra il noir puro, il crime poliziesco e il giallo. Uno di quei film che vive di continui colpi di scena, ma che anche se si conosce il memorabile finale non smette ogni volta di destare suspense e stupore nello spettatore, a conferma di quanto abbia retto bene il passare del tempo.
Il soggetto e la sceneggiatura – intricatissimi, stratificati fra diverse dimensioni temporali e vari punti di vista da cui è narrata la storia – furono scritti da Christopher McQuarrie, che collaborò diverse volte con Singer e che è divenuto celebre di recente come regista degli ultimi capitoli della saga Mission: Impossible. La vicenda inizia in media res, quando un uomo viene ucciso a bordo di una nave, poi fatta saltare in aria, a San Pedro, in California. Si torna quindi indietro di sei settimane, quando a New York furono arrestati cinque uomini, accusati del furto ai danni di un camion di fucili, e sottoposti a un confronto all’americana: sono Dean Keaton (Gabriel Byrne), un ex poliziotto datosi al crimine, lo storpio “Verbal” Kint (Kevin Spacey), Hockney (Kevin Pollak), McManus (Stephen Baldwin) e Fenster (Benicio del Toro).
Oggi, a Los Angeles, la polizia cerca di capire il motivo della strage di San Pedro, dove l’esplosione ha causato un numero imprecisato di morti: due soltanto sono i superstiti, un criminale ungherese gravemente ustionato, e Verbal Kint. La presenza di Kint spinge David Kujan (Chazz Palminteri), il detective che arrestò Keaton a New York, a recarsi in città per interrogare lo zoppo, nonostante l’uomo abbia già ottenuto l’immunità dal Procuratore. Ha inizio così un lungo interrogatorio, attraverso il quale scopriamo che il quintetto fu rilasciato ma rimase unito dedicandosi a varie attività criminali, come la rapina a un gruppo di poliziotti corrotti.
Dopo un colpo andato male, i malviventi furono avvicinati dal misterioso avvocato Kobayashi (Pete Postlethwaite), portavoce dell’altrettanto misterioso Keyser Söze, un gangster turco che nessuno ha mai visto e che nel mondo della mala incute terrore a tutti. Söze, ricattandoli, obbligò i cinque a compiere una missione su una nave a San Pedro, al termine della quale furono tutti uccisi. Il detective Kujan, concluso l’interrogatorio, è convinto che Dean Keaton fosse in realtà Söze, per cui rilascia Kint. Ma le sorprese non sono finite: chi è in realtà Keyser Söze?
. “Il diavolo, probabilmente”, verrebbe da rispondere citando Dostoevskij (e di conseguenza Robert Bresson, regista del film omonimo). Seguono spoiler, pur essendo il film ormai notissimo. La citazione intera è: “Chi si prende gioco degli uomini? – Il diavolo, probabilmente”, ed è più che mai coerente col personaggio, visto che il temibile Keyser Söze si nasconde sotto le vesti umili e tremebonde del falso invalido Verbal Kint, il quale riesce a raggirare tutti costruendo un racconto perfetto e apparentemente inoppugnabile. Del resto, il diavolo è più volte citato nel corso de I soliti sospetti: a proposito di Söze – inquadrato di spalle in una scena dai colori accesi e deformati come le fiamme dell’inferno, mentre uccide la sua stessa famiglia come prova di forza verso i suoi nemici – più volte identificato dai malavitosi come il demonio; nella famosa frase pronunciata da Kint “La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste”; e anche a proposito dello stesso Kint, che viene definito come “protetto molto in alto, dal principe delle tenebre”, in quello che a posteriori sarà un chiaro indizio della sua identità.
La figura di Keyser Söze è quasi mitologica, è un essere crudele e inafferrabile, che nessuno sembra abbia mai visto: o meglio, nessuno tranne un testimone, che si trova a bordo della nave attraccata a San Pedro, l’unico uomo che potrebbe incriminarlo e il cui omicidio è il vero bersaglio della missione, non l’ingente quantitativo di droga in realtà inesistente. Chiunque pronunci il nome di Söze è ritratto da Singer attraverso primi piani terrorizzati, sia il testimone sulla nave, sia il sopravvissuto ustionato in ospedale: solo Gabriel Byrne, nella scena iniziale, prima di essere ucciso, lo guarda con un cenno di sfida, forse perché ha scoperto la sua identità. Se per gli stessi criminali è uno spauracchio, per i poliziotti è uno spettro inafferrabile, tanto da ipotizzare che non esista: ma non per l’astuto (in realtà non troppo) agente Kujan, il quale compie una ricostruzione solidissima (peccato solo che sia sbagliata), identificandolo con il suo grande nemico Keaton, che avrebbe organizzato ogni cosa.
Il grande enigma di The Usual Suspects è dunque, man mano che scorre la narrazione, scoprire l’identità di Keyser Söze. Ma non è errato affermare che l’intero film, dalla prima all’ultima scena, sia un enigma: un enorme e complesso enigma che si esplica in varie direzioni, narrative e temporali. Secondo le regole della narratologia, possiamo dire che la quasi totalità della vicenda sia narrata attraverso il punto di vista di Verbal Kint – un immenso Spacey, che all’epoca stava man mano conquistando la sua fama e che ottenne un meritatissimo Premio Oscar come attore non protagonista – per cui non sappiamo mai cosa sia vero e cosa sia inventato: se vogliamo, I soliti sospetti è una sorta di Rashomon dove la pluralità dei punti di vista è ridotta a uno solo, quello del delinquente zoppo, alternato in brevi momenti a quello del cosiddetto “narratore esterno”.
Il confine tra realtà e finzione diventa volutamente sottilissimo, e pur essendo I soliti sospetti uno di quei film che vive molto sul colpo di scena finale (un po’ come Il sesto senso di Shyamalan, per intenderci), a ogni visione ci accorgiamo che esso guadagna sempre qualcosa in più: notiamo per esempio un nuovo particolare rivelatore, comprendiamo meglio l’intreccio, guardiamo la storia da una nuova prospettiva, facciamo magari anche teorie e ipotesi su cosa sia vero e su cosa sia frutto del suo racconto. Eccolo, tutto il genio di Bryan Singer: non soltanto costruire un colpo di scena, perché molti sanno farlo (anche se non di questa caratura), ma creare un film che ogni volta sappia stupirci e farci porre domande pur sapendo già come va a finire. Anche l’andamento temporale è contorto (sempre per restare nella narratologia, di cui I soliti sospetti è un saggio cinematografico, la fabula è diversa dall’intreccio), per cui oscilliamo continuamente fra presente e passato: il presente, con l’uccisione di Byrne per mano del misterioso personaggio (Keyser Söze, scopriremo poi); il passato, risalente a sei settimane prima, con l’arresto dei cinque e il confronto; di nuovo il presente, con l’arrivo a Los Angeles di Kujan; il passato, col racconto di Kint (intervallato da scene nell’ufficio di polizia); infine di nuovo il presente, con l’improvviso disvelarsi della verità all’incredulo poliziotto.
La tecnica del colpo di scena è ormai persino abusata nel cinema, quindi non è sufficiente scriverlo in maniera credibile (e lo sceneggiatore McQuarrie lo ha fatto), ma bisogna dirigerlo in modo che esso risulti davvero memorabile, e Singer lo ha saputo fare dannatamente bene. Fra i cinefili, ormai sanno tutti che Kevin Spacey, zoppo e menomato a una mano, così timido e fragile, è in realtà sanissimo ed è Keyser Söze in persona, anche se viene paventata l’ipotesi che il famigerato gangster turco possa essere una leggenda, una copertura; così come sanno che ha inventato buona parte del racconto prendendo spunto dalle carte appese nell’ufficio di polizia e dagli oggetti che lo circondano, riuscendo a prendere in giro tutti, poliziotto e spettatore compresi, con l’astuzia ingannatrice tipica del diavolo tante volte citato. La regia alterna i primi piani di Kujan (un eccellente Palminteri, reduce dal ruolo di gangster in Bronx, e qua convincente anche sulla sponda opposta) con i dettagli sulle scritte, regalandoci un finale di culto entrato meritatamente nell’immaginario cinematografico: le frasi di Kint che riecheggiano sonoramente, la tazza che cade al ralenti, la scritta Kobayashi, i primi piani increduli di Palminteri, le musiche tesissime con gli archi che stridono, l’identikit fatto dal moribondo che ritrae Spacey in persona, la corsa del poliziotto in strada, Spacey che inizia a camminare dritto e poi fugge in auto col complice (Postlethwaite, il cosiddetto “avvocato”), la riproposizione della frase sull’inganno del diavolo.
Basterebbe questo finale a consacrare The Usual Suspects come una lezione di cinema, ma ovviamente c’è molto altro, che ne fa non soltanto un crime-noir da antologia, ma anche un film da studiare nelle scuole: è diretto in maniera solida e certosina, persino maniacale nei dettagli e nella rappresentazione dei personaggi, qualcosa di incredibile per un regista che era praticamente agli esordi. Pur dannandoci a trovare una quadratura del cerchio, ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge, qualcosa che non sappiamo bene se appartiene alla verità dei fatti o all’invenzione di Verbal (soprannome che significa pressappoco “chiacchierone”, viene detto), ma il film vuole e deve essere fatto così.
La pellicola è ricca di scene iconiche, come la suddetta conclusione ma anche la celeberrima inquadratura sui cinque delinquenti alle prese con il classico confronto “all’americana” – quello in cui sono disposti l’uno accanto all’altro, contro il muro, con le righe per misurare l’altezza degli arrestati – e la scena del raduno davanti al tempio orientale con il ricettatore. Spacey, Byrne e Palminteri dominano la scena, ma anche gli altri interpreti – non tutti ancora famosi nel 1995 – sono perfetti e con le facce giuste: dal volto da narcos di un Benicio del Toro all’epoca poco conosciuto, al belloccio Baldwin (uno dei tanti fratelli, tutti attori), fino alla grinta di Pollak, mentre Byrne (già rodato nel noir con Crocevia della morte) è il duro, in apparenza il capo (come vorrebbe il detective), in realtà una pedina di Kint come tutti gli altri.
Notevole è anche il volto torvo e inconfondibile di Postlethwaite, reduce dal famosissimo Nel nome del padre, la cui presenza nel racconto di Spacey è determinante nello sviluppo dell’azione, e che torna nell’ultima scena come il complice (o avvocato, non è chiarito) con cui Kint fugge in auto. Ci sono poi caratteri a latere, tutti scelti con cura certosina, come i poliziotti interpretati da Dan Hedaya e Giancarlo Esposito, il ricettatore Redfoot (Peter Greene) e l’avvocatessa amante di Keaton (impersonata da Suzy Amis), la quale in più di un’occasione ha un ruolo rilevante nell’intricata vicenda. Le interpretazioni viscerali dei protagonisti – tutti ben caratterizzati e riconoscibili, ciascuno con le sue peculiarità – sono dirette da una regia in stato di grazia, che mette a frutto gli incisivi dialoghi della sceneggiatura (basti pensare ai duri confronti fra Kujan e Kint, ma anche ai monologhi del solo Kint, che in più di un’occasione si divora letteralmente la scena) e passa in rassegna tutti i caratteri e le situazioni fondamentali del noir contemporaneo: in sostanza, quelli analizzati finora, cioè i criminali di piccola tacca, il boss, l’avvocato della mala, la donna, ricettatori e contrabbandieri, poliziotti onesti e corrotti, le rapine, le indagini e gli interrogatori della polizia.
In ogni crime movie che si rispetti, l’azione non può mancare, per cui ecco che il quintetto rapina un’auto di poliziotti corrotti con a bordo un contrabbandiere: una sequenza da manuale, anch’essa diretta in modo impeccabile, fra car-crash e armi spianate. Ci sono poi le brevi sparatorie nel parcheggio sotterraneo e nell’ascensore, ma è l’assalto alla nave che la fa padrone in tal senso, con Byrne, Baldwin e Pollak (Spacey viene lasciato a riva, mentre Benicio del Toro è già stato ucciso) che fanno fuoco e fiamme con i loro mitra contro la banda degli ungheresi, per poi fare spazio a un ancora sconosciuto Keyser Söze che ammazza i tre e fa esplodere la nave.
Tutto è costantemente diretto e fotografato in modo incisivo, supportato da una colonna sonora ricca di suspense e da un montaggio che sa essere nervoso (come nelle scene d’azione e nel concitato finale) oppure concedere lungo spazio alle inquadrature (per esempio, i primi piani su Byrne, Spacey e Palminteri): la regia è di altissimo livello non solo nella costruzione della storia e nella direzione degli attori, ma anche nella perizia tecnica – vedasi il suddetto utilizzo del montaggio, oppure le inquadrature sui dettagli. Tutti elementi che, insieme a una sceneggiatura granitica, fanno de I soliti sospetti un crime noir d’antologia.