“Il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime”, così scriveva Marie von Ebner-Eschenbach. E proprio sul dolore, su un lutto, su un trauma non del tutto elaborato sono centrati due film di recente visione, tra i quali vediamo scorrere un impalpabile fil rouge intessuto delle diverse declinazioni cinematografiche che si possono dare al tema del dolore e dei percorsi alterni che le anime possono intraprendere per superarli. Le due opere prese in esame sono Rosa, esordio al lungo della documentarista Katja Colja, e Tornare di Cristina Comencini: entrambi film girati da donne, entrambi con una donna per protagonista, eppure capaci di essere agli antipodi.

Rosa (Lunetta Savino) ha ormai sessant’anni e non sa più che fare della sua vita. La perdita recente della sua figlia più giovane, l’ha gettata in uno sconforto così diffuso da togliere senso ad ogni azione. Il lungo matrimonio con il marito, lo sloveno Igor (Boris Cavazza), pare giunto al capolinea. Nemmeno le imminenti nozze della primogenita sembrano risvegliare la sua attenzione di mamma. Finché un giorno, per caso, sistemando la stanza della figlia scomparsa, Rosa non trova un oggetto (un “misterioso” sex toy) che diventerà il vettore di una trasformazione, o meglio, di un ritorno. Dalla riscoperta delicata e pudica della propria fisicità femminile alla riconquista del proprio sé dimenticato.

Anche l’incipit di Tornare (uscito direttamente sulle piattaforme streaming) di Comencini è un lutto, un funerale: la quarantenne Alice (Giovanna Mezzogiorno) emigrata da tempo negli USA, torna a Napoli per la morte di suo padre e rimette piede dopo 20 anni nella casa di famiglia. Attraverso incontri con personaggi più o meno reali, l’affascinante e misterioso Marc (Vincenzo Amato) e la giovane ragazza che abita la casa, Alice apre la porta di un mondo fino ad allora per lei sconosciuto, o meglio rimosso, un mondo che la farà tornare piccola piccola come la protagonista della fiaba di Carroll, le farà versare molte lacrime, ma aprirà squarci profondissimi nella comprensione della sua esistenza.  

Da una parte un romanzo di formazione “al contrario”, un film (originale per la narrazione di un’età spesso trascurata dal cinema) che segue passo passo la protagonista in una seconda maturazione, da una senilità assopita e rassegnata, alla riscoperta di una linfa vitale senza età. Dall’altra quello che l’autrice ha definito come un thriller dell’anima o dell’inconscio, un’opera che però si attorciglia sul suo presupposto iniziale, quello di mettere in scena un viaggio a ritroso tra i cunicoli della memoria, tralasciando però spesso i punti di contatto con il tempo presente, i raccordi narrativi che dovrebbero più emozionare.

Di qua una narrazione semplice, domestica e toccante, di là una sceneggiatura greve che inciampa in un registro spesso didascalico (ricorrendo a simbolismi fin troppo evidenti come matrioske, tunnel, cani neri) per illustrare qualcosa che dovrebbe essere invece impalpabile, inconscio, e finisce per risolversi in puro virtuosismo. Tornare voleva essere un film che ti smuove dentro, ma raramente riesce a toccare le corde del cuore.

In Rosa Lunetta Savino, finalmente protagonista, esprime il suo grande carattere di attrice, mescolando nelle mille sfumature del suo bellissimo e rivoluzionario personaggio, le matrici di due grandi tabù, la morte e il piacere, accostati nell’immagine di una donna, madre e sessantenne. Un regalo al femminismo inespresso nel cinema quotidiano.

Entrambe le storie sono ambientate nella casa di famiglia, l’architettura assume un valore narrativo e drammatico. Tornare insiste prepotentemente sul tema della casa d’origine come luogo generatore di flussi di coscienza, memorie, recupero di sé, ma lo fa intrappolando la protagonista in dialoghi prevedibili con le sue due alter ego immaginate, la sé stessa bambina e l’adolescente. La telecamera cede spesso ad un compiacimento estetico, purtroppo fine a sé stesso, filmando cunicoli, caverne, corridoi, luoghi simbolicamente collegati al tema dell’inconscio, del ventre materno, nei quali Alice (Giovanna Mezzogiorno) si muove goffamente, senza riuscire ad attribuire loro quella consistenza psicanalitica che ci si sarebbe aspettati.

In Rosa invece l’ambientazione nella casa di famiglia diventa lo strumento attraverso cui la regista può entrare più a fondo nelle vite dei protagonisti, può stanare le loro verità fatte di spazi divisi e muri invalicabili, di stanze “santuario” e porte chiuse alle quali accostare un orecchio, con timorosa speranza, per origliare la presenza dell’altro che non si ha più il coraggio di reclamare. 

Nel film di Kolja c'è la misurata esposizione del dolore intimo di una madre, raccontato per sottrazione da una Savino che ha giustamente meritato per questo la candidatura ai David di Donatello. L’incontro di una donna con sé stessa passa dal recupero del contatto fisico con il proprio corpo, spesso ammutolito da tabù estetici o demografici. Nel film di Comencini è proprio il corpo che manca. Quello stesso corpo protagonista dell’evento cardine della storia, come per un incidente semantico non trova il suo “correlativo oggettivo” nel corpo dell’attrice, che forse troppo nascosto e negato, giunge allo spettatore incapace di evocare una qualunque emozione. Per tutto il film il corpo dell’attrice è celato da un abbigliamento casto e punitivo, da inquadrature che insistono sul volto e sugli occhi, ma che nulla concedono alla fisicità della protagonista. È come se si fosse applicata una censura alla sua immagine, a causa dei canoni estetici dominanti, che tale immagine paiono rifiutare a priori. 

Diversamente da quanto avviene in Rosa, dove una maggiore libertà è concessa all’occhio della regista, dalla generosità con cui Lunetta Savino si dona alla storia, corpo incluso, per raccontare il ritrovato contatto con il fisico e con se stessa di una donna over 60. Senza falso pudore, ma soprattutto senza tabù e senza nulla concedere né a canoni estetici né tantomeno morali. Con estrema sincerità. Quella che arriva dritta al cuore. 

Rosa si riappropria con coraggio di una fisicità femminile offerta al mondo con decisa autodeterminazione, Tornare espone il timore di una fisicità negata e mortificata, per paura di essere ancora una volta fraintesa dal mondo circostante. Due registri diversamente efficaci per raccontare il corpo e l'anima delle donne.