Tutti, anche i più difficili da raggiungere, conoscono la strage avvenuta in Norvegia, il 22 luglio del 201, in cui sono morte 77 persone - la maggior parte tra i 14 e i 20 anni appartenenti alla Lega dei Giovani Lavoratori - e sono state ferite più di 200 persone. Conosciamo anche bene le dichiarazioni del terrorista Anders Breivik e la foto, che lo ritrae in tribunale mentre fa il saluto nazista, circolata alla velocità della luce sul web e nei notiziari televisivi.

Paul Greengrass ricostruisce minuziosamente e in maniera rigida i fatti, proponendo così uno sguardo attento e vigile sulle dinamiche che precedono l’attentato e quelle che ne sono scaturite. Inizialmente crea un’aura di suspense avvalendosi del concetto “arrivano i nostri” e fa del montaggio alternato un suo complice per la ricostruzione degli avvenimenti. Ciò che fa storcere il naso è la retorica che ne emerge; il volere prepotentemente lanciare un messaggio istruttorio, ma non abbastanza tenace. 22 luglio diventa un bell’involucro, ma al suo interno troppo caotico. Infatti, propone innumerevoli personaggi limitando la costruzione ad un grado essenziale del livello fenomenologico e di quello formale.

Il film si muove su tre assi paralleli che si avvicinano, quasi incrociandosi, solo due volte all’interno dell’arco narrativo, ovvero nei momenti cardine: l’attentato e il processo. I personaggi protagonisti di ogni fil rouge sono il filo-nazista Breivik, il Primo Ministro e l’avvocato, e, come ultimo, uno dei ragazzi sopravvissuti, Viljar. Questi sono indeboliti da un occhio imparziale che, non prediligendo un punto di vista, saltella da un personaggio all’altro senza focalizzarsi. La macchina da presa rimbalza in qua e in là tra la rivincita di Viljar, il suo dramma, e la sua possibile storia amorosa o di amicizia, le complessità che il Primo Ministro e l’avvocato difensore devono affrontare, per poi arrivare di tanto in tanto sui primi piani di quella mente assassina di Anders Breivik.

Greengrass sembra non avere un’idea precisamente inquadrabile, ma l’unica cosa visivamente chiara è il folle gioco di morte che mette in moto Breivik. Nella sequenza della strage di Utøya la camera si muove come se si trattasse di un agghiacciante videogioco. Mostra un uomo mascherato da poliziotto, che spara su dei bersagli in movimento, cambia i caricatori e si assicura che le persone a terra siano realmente morte. Tutti sono il suo bersaglio, un po’ come in un gioco per la Playstation. Breivik si muove, parla e spara come un personaggio alla Call of Duty. Sembra avere un radar che gli consiglia dove guardare per scovare i suoi nemici e quando spara, lo fa abbastanza a casaccio anche se cerca di prendere la mira. Non è un tiratore professionista, magari lo è da una scrivania, e Greengrass in questa sequenza, la più bella, cerca di sottolineare anche la realtà tragica della vicenda: morire senza sapere perché e, per di più, per mano di un assassino che non sa come si fa.