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La piccola rivoluzione di “Luna nera”

Luna Nera è la terza serie italiana distribuita su Netflix, dopo Suburra e Baby. Alla regia vediamo tre donne: Paola Randi, Susanna Nicchiarelli e Francesca Comencini. Tre donne che hanno già debuttato nel cinema. Insomma, un progetto tutto al femminile.Per quanto sia una serie lacunosa sotto alcuni punti di vista e con dei difetti evidenti, rappresenta in ogni caso un atto di coraggio. Il compito più difficile è proprio cominciare qualcosa che nessuno ha mai tentato. E Luna Nera è un passo verso lo svecchiamento della nostra produzione. Magari un piccolo passo. Ma con l’auspicio che sia il primo di tanti altri, sempre migliori.

Noah Baumbach parla al British Film Institute di Londra

Dalla nostra corrispondente a Londra.  Noah Baumbach è apparso sul palco del British Film Institute di Londra, dove ha parlato della genesi della pellicola, del suo rapporto con gli attori e dell’importanza dei musical nella diegesi. “Cercavo un modo per ritrarre una storia d’amore e volevo, allo stesso tempo, esplorare il processo del divorzio. Raccontare di un matrimonio che si disintegrava mi dava l’opportunità di parlare del matrimonio stesso” ha spiegato il regista. Nel film, Baumbach non giudica i due protagonisti, rimanendo imparziale. Il vero nemico in Storia di un matrimonio è il sistema giuridico americano: “Per me è stato importante che gli avvocati non risultassero cattivi, sono professionisti di un sistema che a volte non sembra avere nessun tipo di razionalità”.

“Storia di un matrimonio” e la terapia incompiuta

La cosa straordinaria di Storia di un matrimonio è che “è quello che è”, come direbbero in The Irishman. Cos’è, se non ciò che appare? È una commedia drammatica post-alleniana dentro l’orizzonte newyorkese: non a caso Los Angeles è vista come una cartolina lontana, il luogo dove agli occhi del protagonista, Charlie, viene meno l’autenticità delle relazioni e si rivela la rottura forse irreversibile con la moglie, Nicole. È, ancora, una versione di Scene da un matrimonio che incrocia sprazzi di mumblecore. È il racconto di una separazione che aggiorna il “divorce movie” alla Kramer contro Kramer ai progressi del diritto di famiglia. È, come la trenodia di Martin Scorsese, un altro commiato allo spirito, ai luoghi, ai colori, agli umori della New Hollywood con i soldi di Netflix.

Il folle gioco di morte del “22 luglio”

Il film, in programmazione simultanea su Netflix e in alcune sale scelte, si muove su tre assi paralleli che si avvicinano solo due volte all’interno dell’arco narrativo, ovvero nei momenti cardine: l’attentato e il processo. I personaggi protagonisti di ogni fil rouge sono il filo-nazista Breivik, il Primo Ministro e l’avvocato, e, come ultimo, uno dei ragazzi sopravvissuti, Viljar. La macchina da presa rimbalza in qua e in là tra la rivincita di Viljar, il suo dramma, e la sua possibile storia amorosa o di amicizia, le complessità che il Primo Ministro e l’avvocato difensore devono affrontare, per poi arrivare di tanto in tanto sui primi piani di quella mente assassina di Anders Breivik.

“The Ballad of Buster Scruggs” dei fratelli Coen a Venezia 2018

I fratelli Coen, oltre a tornare alle loro origini, hanno ripristinato alcuni dei vecchi criteri del genere western e questo è evidente nell’episodio che vede per protagonista una ragazza a cui è appena morto il fratello, l’unico partente che le rimaneva, ma ha la fortuna di incontrare un uomo col quale si fidanza. Un episodio che ricorda a tratti il film che storicamente porta la data dell’effettivo tramonto del western americano, ovvero La conquista del West di John Ford, Henry Hathaway, George Marshall e Richard Thorpe. L’indiano torna ad essere lo spietato nemico che attacca in gruppo e cerca di prendere lo scalpo dei bianchi, il campo lungo prevale e tornano le carovane, le impiccagioni e le diligenze stipate di gente dalla lingua lunga e di cacciatori di taglie.

Netflix e la paura dell’infinito

Netflix si basa sui concetti di sovraccarico e illimitatezza. Concetti che oggigiorno vendono benissimo – poter avere tutto, più di quanto ci serva, in qualsiasi momento – ma che forse funzionano maggiormente con testi finiti, circoscritti, quantificabili, come sono appunto i film. Per testi così malleabili dal punto di vista della fruizione, legati alle abilità e all’investimento temporale dell’utente, la formula in abbonamento non rischia di essere inconsciamente angosciante? Li vogliamo davvero millemila giochi che possono durare ognuno millemila e più ore, sempre pronti all’uso? E se fosse infine l’utente, lasciato a se stesso, a cercare la propria via, a recuperare in autonomia l’opera tanto desiderata? In quel caso, il momento della fruizione potrebbe beneficiare dell’impegno investito per arrivare all’obiettivo. Come ai vecchi tempi.