Grazie al succoso invito del produttore Goffredo Lombardo (che aveva realizzato anche Rocco e i suoi fratelli) Luchino Visconti si apprestava con entusiasmo a realizzare il Gattopardo, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e completato nel 1963. Uno dei caposaldi del cinema italiano che riprende i temi più cari a Visconti unendo la critica sociale, la magniloquente ricostruzione storica e il gusto per il melodramma.
Attraverso lo sguardo ristretto ma lucido di Don Fabrizio, principe di Salina, interpretato da un magnifico Burt Lancaster, Visconti legge a posteriori la storia italiana con disillusione e pessimismo, raccontando il tramonto di un’epoca e l’alba di un mondo nuovo. Il film ruota attorno al matrimonio del nipote, Tancredi Falconeri, rappresentante della vecchia aristocrazia latifondista, e Angelica, figlia di Don Calogero, esponente depravato di una borghesia arricchita che si apprestava ad instaurare un ordine nuovo.
Il Gattopardo è la storia del Risorgimento come rivoluzione tradita, dell’illusione del cambiamento che si rivela mero avvicendamento di un potere con un altro. Un film politico che passa attraverso i gesti quasi simbolici dei suoi personaggi, dei gesti, forse senza rumore, ma con degli echi immensi che rimandano all’orrore e alla violenza di uno stravolgimento storico.
La morte fa capolino da ogni angolo, a partire dalla prima scena in cui il ritrovamento del cadavere di un soldato interrompe la preghiera collettiva della famiglia Corbera. Sbuca dai degradati vicoli di Palermo che il principe di Salina percorre ogni tanto, come per ricordarsi le forme della realtà. Emerge dalle, seppur pochissime, scene di guerra in cui le camice rosse avanzano per la Sicilia. Una morte che tormenta il protagonista fino alla fine del film.
Don Fabrizio vede attraverso i personaggi con cui interagisce, ne prevede gli intenti, sente che sta giungendo la fine della sua classe sociale e di non poter fare nulla per frenare quest’onda inarrestabile. Ma quello che gli arreca più sofferenza è il panorama di incoerenza e cinismo che lo circonda, dove tanti giovani sembrano aver rischiato la vita, non per degli ideali, ma semplicemente per opportunismo. Un vuoto affamato di ricchezza e potere di fronte al quale l’enorme statura morale del protagonista giganteggia.
Questo pessimismo non ha però fini moralistici: sia nel caso del romanzo di Tomasi di Lampedusa che per il film di Visconti il personaggio di Don Fabrizio è costruito come una sorta di controfigura dell’autore, un suo portavoce sulla scena, che attraverso la sua ubiquità tra presente e passato, riesce a formulare un giudizio sulla storia.
Così il principe di Salina si erge al di sopra dello spirito del suo tempo, la sua morale, i suoi costumi. Un uomo in cui Visconti si identifica pienamente, come accadrà con un altro personaggio interpretato sempre da Burt Lancaster, ovvero il professore, protagonista dell’ultimo film di Visconti: Gruppo di famiglia in un interno. Due personaggi ossessionati dalla morte e privi di speranze verso il futuro.
L’animo turbolento dell’essere umano ha sempre attirato il regista milanese forse più del contesto sociale nel quale i suoi personaggi si muovono. Infatti, nonostante il trambusto di un’epoca che finisce, di un mondo che sembra capovolgersi, la sua rappresentazione esce raramente dal lusso sfrenato dei palazzi della famiglia siciliana. La camera indugia sui meravigliosi arazzi, sui magniloquenti saloni che tanto bene doveva conoscere Visconti, essendoci cresciuto. Tanto che la famosissima sequenza del ballo in casa Ponteleone, suggello dell’unione tra Tancredi e Angelica e dell’inizio di una nuova epoca, dura quasi un terzo dell’intero film.
La dilatazione temporale di quella sequenza è uno strumento che il regista utilizza per ribaltare la meraviglia barocca di scenografia e costumi, curati fino al dettaglio, in un senso quasi claustrofobico di oppressione. Il caldo torrido delle stanze che porta i personaggi a sudare copiosamente raggiunge lo spettatore, portando tutto l’edonismo all’implosione. I discorsi reazionari dei militari, l’ipocrisia e l’opportunismo di Tancredi, il culto dell’apparenza dei partecipanti trascendono la storia e il cambiamento fino a sfociare nel disgusto. Una sequenza magistrale che termina con lo sconsolato Don Fabrizio in cammino attraverso il degrado e l’abbandono dei quartieri palermitani. Un’immagine che crea un contrasto violento con le precedenti ricordando in un lampo la verità della storia dove alla fine i ricchi trionfano sempre.
Con Il Gattopardo Visconti realizza ben più di un film sul Risorgimento: in poco più di tre ore in cui ogni fotogramma è necessario e insostituibile, trascende la storia stessa divenendo un’opera universale.