“La grandezza appartiene a un altro periodo” fa dire George Stevens a uno dei personaggi del suo Il gigante. Eppure, per definire questa pellicola, non possiamo usare che questo metro: un grande film, di un grande regista, con grandi attori. Più o meno tutti conosciamo Il gigante, per averlo visto - per lo più in televisione - per averlo studiato o per averne sentito parlare. Ecco, questa specie di familiarità potrebbe talvolta averci distratto dalla sua straordinaria attualità e dal suo vasto respiro di classico.

Tratto dall'omonimo romanzo della scrittrice statunitense Edna Ferber, Il gigante, racconta le storia di una famiglia di ricchi allevatori texani in un arco di tempo che va dal 1920 circa agli anni '50, toccando, nelle tre ore di durata, registri assai diversi tra loro: dal melodramma all’epica, dalla commedia al documentario. Attraverso la saga famigliare dei Benedict, Stevens traccia l'evolversi del Texas - allora lo stato più grande degli Stati Uniti - sia a livello economico che sociale ma narra anche il passaggio, durante la corsa al petrolio, dal vecchio al nuovo capitalismo. E in questo grande affresco intergenerazionale il regista riesce anche a ritrarre con grande maestria i tre personaggi principali e la loro evoluzione nel corso di una vita.

Le vicende iniziano quando Jordan Benedict detto Bick (Rock Hudson), ricco proprietario terriero e allevatore texano in viaggio per lavoro nel Maryland, si innamora di Leslie Lynnton (Elizabeth Taylor), la giovane figlia di un medico. I due si sposano e si trasferisco in Texas nel grande ranch di Bick dove Leslie, cresciuta in modo aperto e libero dal padre medico, dovrà confrontarsi con un mondo completamente nuovo, una mentalità fortemente conservatrice e comportamenti maschilisti e razzisti. In particolare si scontrerà con Luz, la sorella del marito, cercherà di contrastare lo stato di estrema povertà e segregazione razziale del popolo di origine messicana e conoscerà Jett Rink (James Dean), un giovane bracciante, povero ma ambizioso e innamorato di lei.

Il gigante, interpretato da un cast stellare, vinse l’Oscar per la regia di Stevens, la cui messa in scena appare ancor oggi ricca di scelte stilistiche che fanno di questo film - insieme a Un posto al sole - uno dei più maturi e studiati del regista. Oltre alle classiche dissolvenze incrociate, vediamo un uso particolare della luce, con figure parzialmente in ombra, spesso tagliate verticalmente (come avessero tutte una parte nascosta o da nascondere), inquadrature senza attori e con voci fuori campo o riprese da punti di vista insoliti.

Stevens ci meraviglia ancora, che sia un bambino messicano che sbadiglia davanti ad un funerale che potrebbe essere il suo, una donna che rivendica la propria voce in politica, un uomo ubriaco che parla ad un deserto di tavoli vuoti o ancora i giovani attori invecchiati in modo così evidente da risultare completamente finti (in una sorta di effetto The Irish Man al contrario).

La pellicola è molto fedele al romanzo della Ferber (uscito nel ’49) e ripropone in modo minuzioso le vicende della pagina scritta, riportando sul grande schermo due elementi molto cari alla scrittrice: il desiderio di rivendicazione del ruolo femminile nella società maschilista dell'epoca e il problema della questione razziale. Stevens non affidò a lei la sceneggiatura, lasciandole però una supervisione durante le riprese.

Esistono infatti diverse fotografie della Ferber, ormai quasi settantenne all'epoca del film, che la ritraggono insieme al regista e al cast, ma soprattutto insieme al ventiquattrenne James Dean. Da alcuni resoconti del dietro le quinte pare infatti che Edna si fermasse spesso a chiacchierare col giovane interprete. Per immergersi ancor meglio nel ruolo e per risultare il più possibile credibile nei panni di Jeff Rink, Dean pretese di imparare a cavalcare e ad usare il lazo da alcuni cowboy locali ed esiste una fotografia del set in cui la stessa Ferber, elegantemente vestita, prova il lazo insieme a lui.

D’altra parte quel magnetismo che lei vedeva in Dean rimane intatto anche per lo spettatore di quasi settant’anni anni dopo. Stevens ritrae spesso Dean in disparte, col cappello da cowboy talmente calato da nascondergli il viso, ciondolante e con lo sguardo altrove, oppure annegato in abiti troppo grandi, seduto su sedie da cui scivolar via, completamente imbrattato di quel petrolio nero che gli cola addosso come sangue e ci fa pensare alla morte che avrebbe incontrato, di lì a pochi mesi, in un tragico incidente stradale.

Stevens, attraverso un sapiente lavoro di regia fa emergere tutte le istanze fondamentali del romanzo della Ferber, soprattutto accompagnando l’evolversi della storia e dei personaggi lungo un arco temporale lineare che invece la scrittrice interrompe attraverso diversi flashback narrativi. Questa scelta registica ha il pregio di riuscire a definire in modo meticoloso le personalità dei tre protagonisti. Da spettatori seguiamo infatti passo a passo la loro crescita, tra successi e fallimenti. Leslie, da ragazza indipendente e raffinata che rivendica la propria voce in società, i diritti delle minoranze e un’educazione non patriarcale per i suoi figli, diventa una donna che non tradisce i propri ideali ma accetta compromessi pur di mantenere gli equilibri di famiglia. Bick da uomo sincero ma legato alle tradizioni identitarie del suo paese, rivede le sue iniziali posizioni conservatrici e classiste arrendendosi alla società multirazziale e alle leggi della nuova economia. Jeff da ragazzo povero e ribelle diventa invece il simbolo del nuovo ricco che guadagna tantissimi soldi ma perde l’amore e annega il suo rancore dentro l’alcool.

La scelta della linearità temporale consente inoltre a Stevens di terminare il film con la parte più memorabile del romanzo, quella che all’interno di un film dall’impronta classica Scorsese definisce da New Hollywood. Alla festa di inaugurazione dell’aeroporto intitolato a Jeff Rink, il milionario raduna mezzo Texas (e anche i Benedict che gli hanno infine ceduto parte dei loro terreni per la trivellazione petrolifera) per una cena di assoluta autocelebrazione (l’Hotel che li ospita tutti si chiama Emperador).

Durante una sera di tuoni e pioggia battente, gli innumerevoli ospiti vengono radunati come una mandria al pascolo in una lussuosa sala da cerimonia, dove deflagrano tutte le tensioni maturate negli anni. Mentre Jett corteggia insistentemente la figlia minore di Bick in cui rivede la madre, il figlio maggiore Jordan viene a sapere che la moglie è stata respinta dal parrucchiere dell'albergo perché messicana. Alla cena di gala Jordan insulta Jett che colpisce il ragazzo gettandolo a terra.

Per vendicare il figlio, Bick ha finalmente l'occasione di sfidare apertamente quello che ha sempre considerato il suo nemico ma, quando si ritrova davanti a un uomo fallito e completamente ubriaco, infine rinuncia. Il film termina all’interno della grande casa dei Benedict - una sorta di castello messicano, vagamente gotico e perturbante, sospeso nel deserto texano come quello di Magritte sulla roccia - che rimane presenza costante in tutto il film ma passa dai toni cupi iniziali ad un bianco luminoso nel finale.

Reduci dalla festa, Leslie e Bick sono seduti sul divano di casa mentre la moglie tampona le ferite del marito dopo una rissa scoppiata in un diner con un gestore razzista. Sopra il divano vediamo un grande quadro - raffigurante una scena di caccia dei coloni - che di sequenza in sequenza rimane uno dei pochi elementi intatti della grande dimora.

Alla sinistra trova posto un mobile col telefono ed un grande soprammobile a forma di torre petrolifera (oggetto curiosamente molto simile a quello che chiude Come le foglie al vento di Douglas Sirk, film dello stesso anno interpretato sempre da Rock Hudson). Alla destra una culla ospita i due piccoli nipoti, uno dalla pelle chiara e uno dalla pelle scura. Marito e moglie si confidano speranze, paure e fallimenti di una vita: quello che rimane è una famiglia con una lunga storia alle spalle e grandi potenziali ma che fatica a capirsi e cerca di sopravvivere alla deflagrazione di ogni certezza.

Una sorta di Pastorale Americana ante litteram che ricorda le parole di Philip Roth: “Ecco come sappiamo di esser vivi: sbagliando”