Doubles Vies, il titolo originale di Il gioco delle coppie, porta dritti al cuore dell’ultimo film di Olivier Assayas: una divertente e acuta riflessione sulla crisi di identità - sospesa fra realtà e finzione narrativa - al tempo della rivoluzione tecnologica. Il tema è approfondito attraverso una raffica di dialoghi scoppiettanti, ironici e taglienti, che non lascia tregua allo spettatore, travolgendolo nel piacevole ritmo di una commedia brillante decisamente riuscita, anche grazie alle ottime interpretazioni di un quartetto di attori in perfetta sintonia tra loro e con il regista.
Al centro delle doppie vite di Assayas ci sono quelle di due coppie francesi di mezza età. Da una parte Alain (Guillaime Canet) che dirige una prestigiosa casa editrice, sospesa fra gli antichi fasti della tradizione cartacea e le sirene delle nuove tecnologie, e Selena (Juliette Binoche), attrice di teatro prestata ad una serie tv di successo che le sta sempre più stretta. Dall’altra Léonard (Vincent Macaigne), scrittore svagato che riversa sulla carta i dettagli delle sue relazioni amorose, senza preoccuparsi troppo di celare l’identità dei personaggi reali cui si ispira, e Valérie (Nora Hamzawi), occupatissima portaborse di un importante e integerrimo politico francese. Ma nessun personaggio corrisponde veramente a se stesso, tanto che la superficie ben pesto si incrina e ogni identità si sdoppia, dando vita a tradimenti sentimentali, professionali ed esistenziali.
Il tema del doppio - storicamente così ben frequentato sia in letteratura che sul grande schermo - è particolarmente caro al regista francese che recentemente, dopo Sils Maria e Personal Shopper, nel 2017 ha firmato la sceneggiatura di Quello che non so di lei insieme a Roman Polanski, lasciando la sua visibile impronta su un film di specchi, che racconta di una scrittrice la cui identità viene rubata, sdoppiata e sostituita. Ma nel caso di Doubles Vies, pur rimanendo nell’ambito del mondo editoriale, le doppie vite a cui allude Assayas non sono solo quelle delle coppie protagoniste ma anche quelle degli oggetti culturali in balia delle nuove tecnologie, primo fra tutti il libro. Che futuro avrà? Resisterà nell’antica versione cartacea, si smaterializzerà nella sua dimensione elettronica o scomparirà completamente sostituito da altre forme di scrittura?
Attraverso il cinema – anch’esso in balia delle nuove modalità di fruizione che ne stanno ridefinendo l’identità - Assayas ci interroga su come la rivoluzione tecnologica in atto stia cambiando in primo luogo noi, la sintassi dei nostri sentimenti e delle nostre relazioni, il nostro modo di esprimerci, di comunicare. Il regista francese, classe 1955, indaga questo tema con l’occhio della sua generazione, anagraficamente lontana da quella dei nativi digitali ma curiosa della complessità contemporanea. Una generazione quella di Assayas che, a discapito di una minore consuetudine col mezzo, ha in fondo il grande privilegio di conoscere e sperimentare due mondi tecnologicamente diversi e di poterne apprezzare pregi e difetti.
Si parla molto di internet, di web 2.0, di e-book e prodotti editoriali similari ma in questo film i dispositivi tecnologici sono fantasmi invisibili eppure continuamente evocati: quando appaiono fugacemente sono scarichi o vengono spenti. Questa assenza - in netta controtendenza rispetto ai suoi film precedenti in cui in alcune scene i dispositivi diventavano protagonisti - è inversamente proporzionale alla presenza di situazioni conviviali, in cui gli oggetti che vengono tenuti fra le mani sono piatti, tazze, bicchieri, a cui Assayas dedica generosi primi piani. Un invito forse allo stare insieme fisicamente, condividendo cibo, birra, vino, idee, senza intermediazioni virtuali.
Di fatto il punto narrativo di partenza del film è quello di un atteggiamento cautamente possibilista: Alain è un editore aperto alle novità che assume Laure (Christa Theret), una giovane donna specialista in nuove tecnologie e finisce per invaghirsi della sue moderne prospettive - e non solo - ma con disincanto. Dopo aver aperto una finestra sulle potenzialità di e-book, audiolibri, ed expresso book machine, dopo aver valutato la possibile acquisizione della propria casa editrice da parte di un losco magnate della telefonia, alla fine Alain si ritrova a dover fare i conti con le mode veloci e passeggere del mercato editoriale. Il libro dell’amico Léonard, inizialmente rifiutato per la tendenza narcisista e ombelicale all’autofiction, alla fine verrà pubblicato con successo su carta, come e-book e audiolibro (spassosissima nelle scene finali l’autocitazione di Juliette Binoche come possibile voce narrante).
Non fiction è infatti il titolo con cui il film viene distribuito sul mercato internazionale, nonché l’altro tema fondamentale che da tempo Assayas indaga (il titolo originale di Quello che non so di lei è Based on A True Story). “La finzione – ha dichiarato il regista – nasce sempre dall’esperienza, si inventa pochissimo, si trasportano piuttosto in termini artistici cose vissute o immaginate: c’è una connessione molto forte fra la nostra intimità e il modo in cui creiamo”. E questa considerazione ci porta direttamente alla riflessione sul rapporto della parola, della narrazione con i social network e con la rete, a partire dal racconto che facciamo di noi stessi e della realtà che ci circonda fino ad arrivare al concetto di post verità. Ma intanto tutto questo se non letteratura è quantomeno scrittura, creazione. “I tweet sono gli haiku della nostra epoca” dice, in modo più o meno provocatorio il regista.
E se la letteratura è morta e il cinema pure, anche la critica non sta tanto bene, soprattutto quando – fa dire Assayas ai suoi personaggi – mostra il suo lato più autoreferenziale e rischia di essere sostituita dai consigli automatici di aggregatori di contenuti e preferenze. Eppure il film è dedicato ai lettori e a chi ama il cinema, ed è puntellato di citazioni cinefile, da Luci d’inverno di Bergman, all’immancabile Gattopardo di Visconti fino al Nastro bianco di Haneke (cui è riservata l’esilarante scena dell’intervista in radio di Léonard). Insomma la cinefilia (ritrovata) forse ci salverà.