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“Il gioco delle coppie”, la cinefilia ci salverà

“La finzione – ha dichiarato il regista – nasce sempre dall’esperienza, si inventa pochissimo, si trasportano piuttosto in termini artistici cose vissute o immaginate: c’è una connessione molto forte fra la nostra intimità e il modo in cui creiamo”. E questa considerazione ci porta direttamente alla riflessione sul rapporto della parola, della narrazione con i social network e con la rete, a partire dal racconto che facciamo di noi stessi e della realtà che ci circonda fino ad arrivare al concetto di post verità. Eppure il film è dedicato ai lettori e a chi ama il cinema, ed è puntellato di citazioni cinefile, da Luci d’inverno di Bergman, all’immancabile Gattopardo di Visconti fino al Nastro bianco di Haneke. Insomma la cinefilia (ritrovata) forse ci salverà.

 

Venezia 2018: “Doubles vies” di Olivier Assayas

Si chiama non-fiction novel, ed è un romanzo che mette in scena avvenimenti accaduti realmente, come quello del protagonista di Doubles vies – il cui titolo inglese è, non per caso, Non Fiction -, scrittore parigino con serie difficoltà ad accorgersi della distanza tra la vita e la letteratura e che trova, dunque, nell’intreccio tra realtà e irrealtà, una matassa difficilissima, quasi impossibile da districare. In questo andirivieni, tanto lo scrittore quanto il regista giocano con dei meccanismi particolari e complessi, in cui non è detto che si riesca sempre a stabilire una netta linea di demarcazione tra il campo degli eventi e quello delle commistioni care alla fiction. Assayas e il suo scrittore sono due figure che, in questo senso, si compenetrano e confondono, tanto che la riflessione sulla crisi del mercato editoriale in seguito all’apporto del digitale sembra un pretesto per alludere ai non dissimili cambiamenti che il cinema sta attraversando in questo frangente sociale e culturale.

“Quello che non so di lei” respinge ma ammalia

Echi di Personal Shopper – Olivier Assayas è cosceneggiatore del film – risuonano nei brevi intermezzi fantasmagorici in cui entità immateriali ricompaiono dal passato, attraverso le plumbee tonalità della fotografia di Pawel Edelman, già collaboratore di Polasnki ne Il pianista, o anche nei volti spigolosi e ipnotici delle protagoniste. L’alchimia fra Seigner e Green è potente, costante, sottesa di una latente e piacevole carica erotica inespressa che interviene in soccorso di una sceneggiatura gracile e costernata di (s)velati debiti interni. La ristretta costellazione di personaggi intorno a cui ruota e si snoda la storia, ci riporta idealmente al punto di inizio del percorso artistico del regista franco-polacco, Il coltello nell’acqua.

Immaginazione e parola in “Quello che non so di lei”

A ricorrere, in Quello che non so di lei, in maniera ossessivo compulsiva è la parola immaginazione e tutti i suoi derivati, sia pure metonimicamente: immagine, immaginario, immaginifico sono le accezioni di una realtà di per sé sfuggente, svincolata da qualsiasi condizionamento con la verosimiglianza. Roman Polanski dà così vita ai paradossi e alle perversioni della mente di Delphine\Emmanuelle Seigner, una scrittrice e, non a caso, il principio costitutivo del film è l’essenza stessa della fiction, l’ambiguità intrinseca al processo creativo e la sua natura di “altro” rispetto all’apparente logica delle cose mondane: Quello che non so di lei, tuttavia, va oltre.