La lenta carrellata all’inizio de Il male non esiste proietta lo spettatore tra i paesaggi di una natura trasognata e inquieta. La camera punta in alto e le chiome degli alberi scorrono come fossero titoli di coda, con una lentezza ipnotica e una dilatazione temporale estranea ai ritmi frenetici della città. Scopriremo poco dopo che in realtà questo sguardo verso l’alto, verso la purezza incontaminata del cielo, anche se meccanico e troppo simmetrico, non è altro che una soggettiva. Questa prima lunga inquadratura e l’ultima, ad essa speculare, racchiudono il film in una cornice di senso imprimendogli un’aura di perturbante misteriosità.

Ci troviamo a Mizubiki, una piccola località boschiva vicino a Tokyo, uno spazio selvaggio in cui risiede una piccola comunità. Takumi (Hitoshi Omika) vive in una casupola sul limitare della foresta insieme alla figlia Hana (Ryo Nishikawa), svolgendo lavori per la collettività, come raccogliere l’acqua o spaccare la legna. I due sono in simbiosi con la natura, tanto che Takumi lascia che la figlia vaghi per i boschi da sola, senza preoccupazioni, nonostante sia solo una bambina. Il delicato equilibrio di quello spicchio di mondo si incrina quando la società di moda e spettacolo Pyramid decide di costruire, proprio in quella zona, un resort a cinque stelle dedicato al glamping (campeggio glamour), minacciando, con l’ubicazione della fossa settica, la purezza della sorgente che rifornisce il paese.

Il nuovo film di Ryusuke Hamaguchi è ispirato alle musiche di una performance di Eiko Ishibashi, già autrice della colonna sonora di Drive My Car. Il male non esiste, dunque, è pensato come una sinfonia visiva in cui suono e immagine si ibridano in un flusso straniante. Un flusso però mutilato, con le musiche sottoposte a tagli improvvisi che annullano la loro forza riappacificante in favore di uno stato di tensione che comunque resta sempre latente.

Rispetto ai suoi film precedenti il regista giapponese sposta il fuoco dall’interiorità dei suoi personaggi concentrandosi maggiormente sull’esterno, lasciando dialogare gli spazi e i dettagli, attraverso un simbolismo ancestrale legato agli elementi naturali. La natura rappresentata è un paradiso perduto in partenza dove la morte riecheggia ad ogni angolo, manifestandosi attraverso una goccia di sangue, dei colpi di fucile in lontananza o la carcassa di un cerbiatto. E’ una natura ormai turbata dall’azione umana, in cui la purezza dell’acqua sorgiva è minacciata dalle deiezioni del sistema neoliberista.

Lente panoramiche e lunghe carrellate dominano la pellicola fin dall’inizio, permettendo al pubblico di esplorare la quotidianità dei protagonisti, la struttura di quel loro intimo rapporto con la natura. La dilatazione temporale scandisce il film costringendo lo spettatore a piegarsi ad una velocità a cui non è abituato. In questo senso il tempo è un imprescindibile veicolo di significato, capace di rimarcare una contrapposizione limpida tra la frenesia scriteriata del mercato e il ritmo dilatato della natura. 

A questi scenari naturali e inquieti che coesistono con Takumi e Hana, sono accostati gli intrusi provenienti dalla città. I due mediatori, inviati dalla società Pyramid a presentare il progetto del resort, sono completamente fuori luogo in quelle zone e, come due conquistadores, pensano di portare la civiltà a degli indigeni. Il risultato dell’assemblea è ben diverso dalle loro aspettative, infatti gli abitanti, ben consci dei rischi di quel piano di lavoro così approssimativo, si oppongono al progetto e chiedono di discutere con il proprietario dell’azienda.

I due mediatori si dimostrano degli stupidi, strumenti inconsapevoli di un potere economico irrazionale e arrogante che guarda solo al guadagno immediato, senza pensare alle conseguenze dei suoi investimenti. Questi due estranei incoscienti e avventati, così come gli altri membri dell’azienda, rappresentano la banalità del male. Un male insensato di cui gli abitanti sono ben consapevoli.

Qui si spiega quella strana soggettiva ad inizio film, infatti quello sguardo trasognato rivolto verso il cielo, ma allo stesso tempo troppo fluido e meccanico per essere umano, era di Hana. Ancora troppo piccola per rendersi conto che, pur nella sua banalità, il male esiste eccome. È Hana il fulcro del film, il nucleo attorno al quale è costruita l’intera sceneggiatura e che le dà un senso. Nella sua giovane età è racchiusa la speranza verso il futuro, una speranza che però si dimostrerà soltanto un’illusione.

Con Il male non esiste Hamaguchi dimostra un’enorme maturità espressiva che si declina in una gestione eccellente del mezzo cinematografico e in una grandissima capacità di raccontare offrendo allo spettatore il minimo indispensabile. I dettagli, il taglio delle inquadrature, ogni elemento va al suo posto facendo apparire semplice la complessità soverchiante di questo mondo e componendo un’opera tanto suggestiva quanto rassegnata in cui non sembra esserci possibilità di redenzione, né di salvezza.