Risparmiato per grazia ricevuta dalla burrasca che insidiava da ogni lato con tuoni e saette il monolitico schermo della BarcArena, mi sono goduto, per così dire, tremante per il freddo e per il terrore, uno spettacolo quasi di realtà aumentata, con l’epica musica di Ennio Morricone che, oltre ad accompagnare i sublimi paesaggi catturati da Tonino Valerii (o da Sergio Leone?), pareva sottolineare anche la mia piccola eroica resistenza sotto la pioggia sferzante. Probabilmente questa fortuita ambientazione ha veramente finito, come avevano anticipato i Manetti Bros. introducendocelo, per nobilitare la proiezione di un film come Il mio nome è Nessuno, che troppo analiticamente cerca di ricreare certe emozioni, rischiando di restituircele fredde e rafferme.
Glissando sopra tutta la controversia su chi veramente abbia diretto il film, se il maestro Sergio Leone o il suo apprendista Tonino Valerii, rimane il fatto che Il mio nome è Nessuno inventa ben poco nel suo continuo tentativo di ripetere, passo dopo passo, sequenze già viste nelle altre opere, ben più illustri, del regista romano, forse per rassicurare il grande pubblico già affezionato e fidelizzato alla marca leoniana. Non aiuta una durata decisamente inflazionata da interminabili scene in cui Terence Hill è chiamato replicare il suo personaggio de Lo chiamavano Trinità… (si veda la scena degli schiaffi, religiosamente ricalcata), animate da una comicità cabarettistica alquanto datata.
Ciononostante la pellicola ha le sue eccellenze, che si possono riassumere considerando ciò che riguarda il personaggio di Henry Fonda. Infatti, le sequenze che seguono la lenta presa di coscienza dell’anziano cowboy Jack Beauregard, accompagnato costantemente dal daimon Nessuno, sono indubbiamente le migliori del film. È qui che Il mio nome è Nessuno trova la sua poetica, esplorando e dissezionando sé stesso, il suo genere e, più ampiamente, l’intero mythos del West, offrendoci un atipico ma notevole spaghetti-western crepuscolare. La dinamica tra vecchio (Fonda) e nuovo (Hill) fanno tornare alla mente il binomio Wayne/Stewart de L’uomo che uccise Liberty Valance, con l’anziano mandriano che non può che farsi da parte davanti a un mondo che non riconosce più e lasciare spazio al giovane, rappresentante di una nuova morale e di una nuova società. Ovviamente c’è una differenza abissale tra il pacato senso di giustizia di James Stewart e la picaresca adrenalina di Terence Hill, ma entrambi rappresentano idealmente il commiato di un genere, il western classico da un lato e lo quello all’italiana dall’altro.
Per questo sono così belle e significative le scene che dipingono l’eterno inseguimento in bilico tra realtà e miraggio tra Beauregard e il Mucchio Selvaggio, che ricordano quasi la vana attesa de Il deserto dei Tartari, simbolo di un genere ormai maniera, che insegue solo la propria coda. A scanso di spiegoni nebulosi un po’ gattopardeschi come quello che chiude il film, è questa sensibilità meta-filmica a rendere Il mio nome è Nessuno un film profondo, nonostante i suoi molti difetti; l’ultimo film western di Sergio Leone, se lo si vuole intendere suo, è il definitivo canto del cigno della grandiosa mitologia della presa dell’Occidente.