Claire è un’affascinante cinquantenne, madre di due figli e amante appassionata di Ludo, un uomo molto più giovane di lei. Col proposito di spiare il suo ex amante, decide di trasformarsi in Clara, avvenente ventiquattrenne la cui immagine su Facebook si sovrappone a quella della donna reale, fino a confondere lei stessa e Alex, un fotografo amico di Ludo conosciuto per caso e divenuto improvvisamente oggetto del suo desiderio. I due si cercano sui social e si sfiorano nella vita reale, fin quando Claire/Clara capirà di aver creato un mondo fittizio permeato, però, da sentimenti autentici difficili da tenere a bada. L’affondo cinematografico di Safy Nebbou, denso impasto di ambiguità narrativa e riflessione sociologica, pesca a piene mani nell’immaginario romanzesco riportando ogni spunto narrativo al tempo “senza tempo” dei social network.
Per far questo il regista scomoda altissime vette del cinema – Rashomon e La donna che visse due volte – e sfuma la parola scritta di Camille Laurens, autrice del romanzo omonimo dal quale è tratto il film, nelle atmosfere evanescenti che ruotano attorno all’immagine prismatica di Juliette Binoche, ipnotica per lo spettatore e ipnotizzata ella stessa dalla liquidità di una storia sempre in bilico tra realtà e immaginazione. Se l’opera di Nebbou fosse una poesia – e tale potrebbe essere in quanto a concettualismo strutturato e sequenze sfumate – sarebbe un componimento senza “stanze” in cui ad agitarsi senza tregua, anziché la joi d’amor, è il fantasma della parola occidentale, che confonde irrimediabilmente la percezione che si ha dell’altro da sè, con l’immagine ingannevole che la donna si costruisce a tavolino, sfruttando il più banale dei desideri erotici: un corpo sinuoso e giovane, biondo e ammaliante.
Così, Clara, naufraga in Claire e viceversa, creando un’osmosi che produce il paradosso della modernità: vivere in un mondo artefatto e provare sentimenti veri. Ma Il mio profilo migliore non è una poesia tradizionalmente intesa, poiché non riesce mai ad afferrare il proprio oggetto d’amore – perso nei riflessi ingannevoli di un’immagine virtuale – e non può ambire a divenire filosofia pura, dato che non conosce appieno l’oggetto di conoscenza che di per sé è inafferrabile. Diventa dunque una meditazione malinconica su uno “spiritus phantasticus” di dureriana memoria, affogato in un tedio nevrotico che diventa ebbrezza solo quando agisce nella finzione più totale.
Parola e fantasma arrivano poi a coincidere e la storia, in procinto di deragliare attraverso i tanti colpi di scena – il film si apre al thriller labirintico e al melodramma patinato – offre una molteplicità di voci che esaltano la scrittura di Nebbou e Julie Peyr, quest’ultima, autrice con Desplechin di altri fantasmi, quelli di Ismaël. Il mio profilo migliore è un’opera stratificata e complessa, capace di sparigliare le carte quando meno ce lo si aspetta e di visualizzare un eros luttuoso, soggiacente alle logiche, ai tempi e alla sintassi spezzata dei social network.