Tratto dal racconto omonimo di William Fryer Harvey del 1919 Il mistero delle cinque dita porta lo spettatore all’interno del piccolo borgo italiano di Santo Stefano e nello specifico a Villa Francesca, nobile dimora di Francis Ingram (Victor Francen), ormai ex pianista costretto in carrozzella da un ictus che lo ha semiparalizzato; quest’ultimo viene trovato morto poco dopo aver redatto il testamento e dopo di lui altri crimini saranno perpetrati all’interno della villa. I sospetti ricadranno sulle persone che lo circondano, ovvero il truffaldino Bruce Conrad che gli scrive la musica, Julie sua infermiera ed unica erede o il segretario Hilary Cummins, interpretato per l'appunto da Peter Lorre.
Ci troviamo davanti ad un horror con budget da B-movie che diventerà un cult nel tempo. Robert Florey, autore eclettico, gli conferisce un tono quasi espressionista, soprattutto nei momenti più visionari. Il mistero delle cinque dita è stato l’ultimo film di Peter Lorre alla Warner Bros. (così come quello del regista Robert Florey) in un periodo difficile della sua vita e carriera: la dipendenza da morfina lo rendeva un attore con cui non era facile lavorare e le sue idee di sinistra non aiutavano di certo in un momento in cui ad Hollywood stava cominciando la caccia alle streghe. Nonostante comparirà ancora in tanti film, questa in qualche modo può essere considerata una delle sue ultime grandi interpretazioni, parafrasando le parole del curatore della sezione Olaf Moller.
Hilary Cummins viene presentato come un mite studioso dedito alla continua ricerca, ma salta subito all’occhio dello spettatore che è un essere sfaccettato, fragile, sofferente e a rischio esplosione. I libri sono la sua vita, quello che lo tiene a bada, che gli permette di tirare avanti nel suo fragilissimo equilibrio e nel momento in cui sentirà il timore di perderli questo equilibrio si trasformerà in lucida follia mettendo in atto un piano diabolico per tenerli stretti a sé. Vista la statura dell’interprete sembra quasi superfluo definire grande la sua interpretazione, fatta di sussurri e grida, dolore e rabbia che trasuda dallo schermo, un bimbo perso nel bosco come lo stesso Lorre si autodefinì in seguito ad un ammonimento di Erich Von Stroheim. Interpretazione fortemente valorizzata da una sapiente fotografia che sottolinea l’espressività e la fisicità del volto e del corpo dell’attore.
Il mistero delle cinque dita, lungi dall’essere un film privo di difetti, è comunque da considerare un gioiellino del cinema horror, che nel finale si prende anche lo spazio per allentare la tensione e fornirci un momento di ilarità, grazie al caratterista J. Carrol Naish.
Per finire bisogna elogiare gli effetti speciali, considerando anche il basso budget: la mano che prende vita è sorprendente per un film dell’epoca e probabilmente ha influenzato diverse opere future più conosciute.
Stefano Careddu