Su Blow-up tutto si è detto e tutto si dirà. E sotto le tante parole spese in mezzo secolo germoglia sempre il seme di una consapevolezza: che in fondo di questo film fondato sul mistero sappiamo soltanto ciò che sceglie di rivelare. Il resto è congettura, un’elucubrazione, pura teoria. Una scatola cinese, un gioco di specchi, una simulazione. Blow-up è una menzogna che ci obbliga a ricercare la verità perduta, nascosta, sommersa sotto ed oltre quella rivelata. Chiede di farlo per altri occhi, imponendoci di imparare a guardare il mondo con lo sguardo altrui. Un film che è un processo creativo dentro la creazione di un processo: la disperata ambizione alla verità trasmessa da una storia che postula la reversibilità tra vero e falso.

A seconda dei casi, “blow-up” significa ingrandimento o esplosione. In entrambi i casi, si tratta di scomporre una realtà troppo complessa per i nostri occhi. Thomas cerca dentro l’immagine ciò che gli è sfuggito nell’atto del fotografare: non dobbiamo aspettare il finale per capire che la sua indagine è destinata a constatare il fallimento, che l’unico modo per proseguire è partecipare alla fiera dell’apparenza. La conferma della finzione, la scomparsa dell’oggettività, l’accettazione dell’illusione come esplosione di verità. E il delitto? Un MacGuffin di primo livello, una chiave per entrare nel meandro di un mistero senza via di uscita. Capita anche al Jack di Blow Out (Brian De Palma, 1981) di ritrovarsi a fare i conti con l’insostenibile inafferrabilità della verità a contatto con un omicidio. La morte (altrui) al lavoro.

Se il fotografo Thomas sviluppa ed ingrandisce le immagini nella camera oscura, il montatore Jack sbobina ed isola i suoni. Entrambi si misurano con la scomposizione. Ma il secondo agisce dentro il meccanismo del cinema, e attraverso il metodo applicato nella finzione cerca di decriptare il reale. La sua ipotesi sul delitto è una verità alternativa a quella ufficiale: come per le immagini in Blow-up, qui si aspira alla rivelazione sotto il suono rivelato. Ingrandiamo: col sonoro lavora anche Harry, lo spione de La conversazione (Francis Ford Coppola, 1974). Non ha nulla a che fare con l’amorale Thomas né col romantico Jack: è già un uomo fallito, il cui presupposto, ulteriore fallimento finale non può che attestare la fine di qualunque illusione. Lo strumento dell’intercettazione gli permette di entrare nei suoni che svelano le vite degli altri: Harry ne è ossessionato, ripete le registrazioni per appropriarsene, per cercare in ciò che sente qualcosa che gli sfugge (come capita a John, che ascolta in loop la voce dell’amata riprodotta dalla segreteria telefonica ne Lo spacciatore, Paul Schrader, 1992).

C’è sempre un delitto di mezzo: ma la sua indagine è dominata dall’impotenza, la paranoia del sospetto intreccia il discorso di Antonioni ad una prospettiva politica volutamente ignorata dal regista italiano. Thomas, infatti, rifiuta l’impegno in favore di una dionisiaca disponibilità all’arcano, mentre Harry non può che incarnare la resa di un mondo: quello che ha creduto nell’illusione kennedyana e l’ha vista perire sotto il fuoco, lasciandosi tormentare dalle immagini del suo delitto. Ne La conversazione, che arriva in sala un anno prima della diffusione del filmato di Zapruder, l’omicidio è ancora un suono la cui eco rimbomba nel cuore del protagonista; in Blow Out, uscito sei anni dopo e all’alba di Reagan, il documento è già un materiale iconico del quale si smitizza l’angoscia in grado di suscitare, diventando semplicemente la pietra di paragone economica rispetto al filmato di Jack. Questi due film, che lavorano sulle menzogne della politica per rintracciare la verità necessaria alla prosecuzione della vita, sarebbero fioriti anche senza Blow-up, senza l’indagine personale del modaiolo fuori dalle dinamiche della politica? Coppola e De Palma non hanno mai nascosto i debiti nei confronti del maestro. Rivediamo Blow-up per cercarlo altrove, anche dove non ci aspetteremmo mai. Prima di essere un film, piaccio o meno, Blow-up è un metodo di lavoro.