C’è un passaggio, in Molly’s Game, in cui la protagonista è all’apice del suo splendore: dismessi gli abiti d’ufficio, ne indossa uno costoso e provocante e, con calcolata disinvoltura, si muove nella suite che affitta una volta a settimana per far giocare i suoi facoltosi clienti. Esteticamente è diventata – come osserva il suo avvocato anni dopo – la versione “serie tv per adulti” di se stessa. Un bel salto (nel vuoto) per una educata secondo i precetti della religione dell’eccellenza. C’è, insomma, un momento in cui Molly si avvicina al tavolo verde e sorride sinistra e al contempo maliarda: ed ecco che all’improvviso pare di trovarsi nella bisca di un saloon, dove Molly è la temibile, ambita, irraggiungibile vestale che domina un mondo di uomini potenti, armati di soldi, fama e disposti a tutto.

Va da sé che qui il western c’entri niente, e peraltro Molly ha una componente sessuale del tutto addomesticata, al contrario, per esempio, di Marlene in Rancho Notorious; tuttavia la suggestione aiuta ad accostare questo personaggio brillante ed ambizioso alle self-made women americane, fascinose ed impenetrabili. Non a caso un uomo tanto ricco quanto debole la crede irlandese, complice quel nome, Molly Bloom, eternato da James Joyce, e forse anche per i fiammeggianti capelli rossi che ribolliscono sotto l’incredibile tinta nera ed incorniciano il diafano incarnato di una novella Maureen O’Haara. E invece no, Molly Bloom – o MB, ovvero la sigla che fa segnare sulle fiches e sulle carte che però non tocca mai – è quanto di più americano si possa immaginare. Oltretutto è stata prima un’atleta, che per colpa di un ramo di pino non divenne la campionessa desiderata dal rigido padre psicologo (Kevin Costner in una grande scelta di casting), e poi una spericolata ma scrupolosa businesswoman, che per paura di perdere tutto scommise sul rischio di mettersi contro il potere ufficiale e quello criminale.

Non si riesce ad immaginare per lei un corpo che non sia quello di Jessica Chastain: il fisico minuto e la credibilità mimetica con cui si cala nel ruolo confermano la tensione muscolare dell’indimenticata eroina di Zero Dark Thirty. Con un background simile, Aaron Sorkin si butta a capofitto in un monologo smisurato, esaltando come al solito il potere della parola per ripensare la narrazione (auto)biografica di una donna apparentemente prigioniera della sua immagine pubblica, stampata sulla copertina del bestseller, ed intimamente desiderosa di dare fiducia a certe imprevedibili sensibilità. Debuttante alla regia, azzarda guardando un po’ a La grande scommessa per agevolare la complessità della materia e un po’ alla magmatica solitudine dei frangibili antieroi scorsesiani. Meglio quando mette in scena la sua sceneggiatura scritta chiosando Il crogiuolo (quante streghe furono davvero bruciate a Salem?), il cui tipico dinamismo è racchiuso in quel dialogo alla prima udienza con l’avvocato Idris Elba che cambia più volte posto col vicino per rivolgersi a Chastain.