Tra la fine degli anni Sessanta e il primo lustro dei Settanta comincia a prendere forma quella che diverrà la saga mafiosa italoamericana per eccellenza, che ogni persona al mondo ha almeno sentito nominare: la trilogia de Il Padrino, di Francis Ford Coppola. Precedentemente, nel cinema di genere statunitense, si era parlato perlopiù di personalità di spicco o astri nascenti nell’ambiente malavitoso, mentre Coppola fu uno dei primi a regalare al pubblico un affresco generale e verosimile di quella che è definita l’onorata società italoamericana newyorkese e non, disegnando il personaggio di Vito Corleone con lo stampo di Carlo Gambino, uno dei più scaltri e famosi padrini delle cosiddette cinque famiglie che controllavano la malavita nella grande mela. Era il 1972, e il primo capitolo dell’opera di Coppola inaugurava il gangster movie del cinema moderno, preparandosi a ricoprire un posto d’onore della cultura di massa e nella memoria collettiva delle generazioni future.

La genesi dell’adattamento del romanzo di Mario Puzo non fu esattamente una passeggiata, prima vennero i dubbi su chi avrebbe dovuto girarlo, poi su Marlon Brando che invece stupì tutti con un provino magistrale e poi su vari maestranti quali il direttore della fotografia Gordon Willis o il compositore Nino Rota. Ma alla fine ne venne fuori un capolavoro del cinema che vinse tre Oscar (miglior film, attore protagonista e sceneggiatura non originale) nell’anno dei record di Cabaret, proiettato anch’esso in queste calde giornate bolognesi. La copia vista al Cinema Ritrovato è un 35 mm Technicolor che proviene direttamente dagli archivi dell’Academy ed oltre ad essere un piacere per i nostri occhi cinefili, si inserisce tematicamente in un dibattito molto attuale, su quale sia la funzione del cinema (o della serialità) di fiction che racconta fatti di mafia. Rispetto alle narrazioni contemporanee Il Padrino visto oggi rischia maggiormente di avere una connotazione romantica a causa dell’epicità dell’impianto narrativo, al modo in cui si è inserito nell’immaginario comune e ad un parco attori senza eguali.

In realtà è il racconto del decadimento di un impero malavitoso, il Vito Corleone di Brando è un uomo in declino, legato a valori di un’altra epoca, un uomo che ha scelto la sua vita ed ora si trova a pagarne le più dure conseguenze, prima personalmente e poi vedendosi massacrare il primogenito. Anche l’ascesa di Michael (Al Pacino) non è mai una vera ascesa, ma un percorso obbligato e fitto di ostacoli che lo porterà ad essere l’esatto opposto di quell’eroe positivo che vorrebbe essere al principio, un freddo mostro che vuol “ripulire” gli affari di famigli sfruttando le collusioni con il sistema politico capitalista. Insomma di positivo sembra esserci poco, New York, e l’America tutta, è piegata a un sistema che sfrutta e impoverisce i più deboli e adotta le leggi dell’ipocrisia e della violenza, come testimonia quella vera e propria lezione di cinema che è il finale di questo film.

Un capolavoro che ha influenzato tutto il cinema di genere a seguire, consacrato la carriera di un attore enorme come Brando, contribuito a far brillare la stella di esordienti che poi sono divenuti leggende, quali Pacino e DeNiro (che sarà presente solamente nella seconda parte della saga) e ha lanciato la tragicamente fulminea carriera di quel grandissimo caratterista che era John Cazale, di cui abbiamo potuto ammirare l’ultima interpretazione solamente qualche sera fa nella cornice di Piazza Maggiore.