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“Il padrino” 50 anni dopo. Antropologia del crimine e del cinema

Il padrino non è solo un film che narra le vicissitudini della Famiglia Corleone, ma innesca anche tra le fila del discorso un delicato ragionamento sulle istituzioni occidentali e sul capitalismo come patto economico-sociale, avvalendosi dell’american dream. Si pensi in tal senso all’acuta frase “’A pistola lasciala, pigliami i cannoli”, dopo l’omicidio, in campo lungo e la Statua della Libertà a vegliare inerme in profondità di campo. Ecco allora che l’intermezzo siciliano diviene un ritorno alle radici, un paesaggio epico intriso di pathos, un Olimpo mitico (non appare casuale la scelta del nome Apollonia per la moglie di Pacino), dove la mafia e i suoi codici centenari nascono per alludere ad altro.

“Il padrino” di Francis Ford Coppola

Tra la fine degli anni Sessanta e il primo lustro dei Settanta comincia a prendere forma quella che diverrà la saga mafiosa italoamericana per eccellenza, che ogni persona al mondo ha almeno sentito nominare: la trilogia de Il Padrino, di Francis Ford Coppola. Precedentemente, nel cinema di genere statunitense, si era parlato perlopiù di personalità di spicco o astri nascenti nell’ambiente malavitoso, mentre Coppola fu uno dei primi a regalare al pubblico un affresco generale e verosimile di quella che è definita l’onorata società italoamericana newyorkese e non, disegnando il personaggio di Vito Corleone con lo stampo di Carlo Gambino, uno dei più scaltri e famosi padrini delle cosiddette cinque famiglie che controllavano la malavita nella grande mela. Era il 1972, e il primo capitolo dell’opera di Coppola inaugurava il gangster movie del cinema moderno, preparandosi a ricoprire un posto d’onore della cultura di massa e nella memoria collettiva delle generazioni future.

Un canto epico per la violenza e la malinconia. “Il padrino” di Francis Ford Coppola

Illuminato dai chiaroscuri crepuscolari di Gordon Willis, Il padrino è il risultato di una perfetta sinergia tra lo studio system americano e quella ricercatezza autoriale tipica degli anni ’70, ma anche di un sentimento tipicamente italoamericano. Spietato Virgilio, Coppola ci accompagna in un vero e proprio inabissamento infernale tra gli anfratti di in una microsocietà, a cavallo tra New York e la Sicilia, in cui ritmi e rituali sono ben definiti. Un affresco che si anima grazie all’epica colonna sonora di Nino Rota, talmente potente da evocare ormai l’oggetto filmico anche in sua assenza: un risultato sorprendente dal momento che la partitura rischiò di non essere mai utilizzata (il produttore Robert Evans la considerava troppo intellettuale) e nonostante l’estromissione dagli Oscar per il presunto plagio al tema musicale di Fortunella (la cui colonna sonora era dello stesso Rota).