La prima inquadratura di Banditi a Orgosolo è una panoramica sulle montagne della Barbagia, sopra Orgosolo in Sardegna, che si chiude con il dettaglio di un fucile. Il paesaggio e il fucile sono i primi due elementi, ma sono anche due nuclei attorno cui si fonda tutto il film di Vittorio De Seta. Il paesaggio come territorio, luogo di comunità lontane, di pastori silenziosi, ruvidi e incontaminati, primitivi come il protagonista rifugiato tra i monti con il fratello minore ad allevare il proprio gregge.
E il fucile come strumento di corruzione ostile, come il bandito che incontra e che lo mette nella condizione di latitanza, come lo Stato (presente, per citare l’introduzione, solamente con i carabinieri e le carceri), come loro stessi, incontaminati da tutto tranne che da quell’unico strumento di modernità che serve loro per cacciare.
Il paesaggio e il fucile sono l’incontro tra tradizione e modernità, tra chi abita e chi attraversa, tra la specificità e la generalità, tra il locale e l’universale. Così come in un certo senso si pone anche questo film in relazione alla sua forma documentaria palesata in un’introduzione praticamente etnografica, ma sempre più ibridata in qualcosa di più narrativo.
L’eco che si porta appresso questo esordio di Vittorio De Seta trascina con sé lo spirito di una delle stagioni più prolifiche del cinema italiano, quella dell’inizio degli anni sessanta, delle grandi opere prime, delle “folle” di esordienti (lo stesso anno, il 1961, esordiva anche Pasolini con Accattone), quella stessa stagione che nel resto del mondo vedeva proliferare le “nouvelles vagues” mentre in Italia assisteva alla formazione di un ecosistema di sovrapposizione di generazioni e di continuità con il neorealismo.
È infatti proprio De Seta, annoverato tra i rosselliniani, che con questo film sembra prendere le traiettorie di un cinema che guarda ancora, con un occhio diretto e pedinante, a una riscoperta dell’Italia di stampo neorealista – a cui lui stesso aveva contribuito negli anni cinquanta raccontando e scoprendo cinematograficamente territori inesplorati del Sud (Sardegna compresa) – ma puntando ora l’orizzonte verso una prospettiva aperta anche alla finzione.
Banditi a Orgosolo sembra neorealismo in purezza (la stessa sequenza di eventi, così come l’organizzazione dei personaggi, sembra tanto guardare a Ladri di biciclette, finale compreso), eppure parla anche di altro. Parte dal vero, dall’esplorazione etnografica e dal lavoro con il territorio (gli attori non professionisti per esempio), per arrivare a un regime di finzione che sembra porsi quasi come un sistema di tutela per il paese.
Il fratello minore del protagonista, in un momento chiave del film, quando incontra i carabinieri, dice di non sapere nulla di suo fratello, il che li porta a cambiare subito strategia consapevoli dell’impossibilità di estrapolargli informazioni. “Sono tutti uguali, imparano a mentire prima di nascere” dice il capo. Qui la falsa testimonianza diventa tutela dei pastori contro la polizia.
In effetti, in conclusione, in Banditi a Orgosolo c’è un profondo pudore nel raccontare una comunità che è coinvolta nella produzione del film, ma poi tenuta segreta. In un altro momento chiave i due fratelli tornano a Orgosolo, parlano con conoscenti, mentre in sottofondo c’è una festa di paese (una di quelle ricorrenze perfette per chi vuole raccontare da un punto di vista etnografico una comunità) che però non viene mai del tutto raccontata. Quando ci avviciniamo, ad essere inquadrati sono solo dei piedi che ballano, quasi come se fosse una piccola parentesi di convivialità non alla portata di tutti, sicuro non dello spettatore “di passaggio”.
De Seta con questo film sembra allora aver trovato un punto di compromesso (che tanto sembra tornare anche nel cinema italiano contemporaneo) tra il paesaggio e il fucile, il locale e l’universale, tra la piatta esistenza e la burrascosa tragedia. Ne esistono tanti, ma pochi così centrati.