La proiezione di Il peccato di Lady Considine (1949) al Cinema Ritrovato 2019, “uno dei technicolor più belli della storia del cinema” secondo Lourcelles e una delle più tremende catastrofi finanziarie che sir Hitch ricordi, ci fa pensare che il cineasta britannico abbia amato alla follia il melodramma, i cieli blu, i dialoghi e la recitazione sullo schermo come fossero una grande “fetta di vita” restituita possibilmente al massimo del suo realismo; in realtà, quella a cui si riferiva pensando alla metafora più calzante per indicare il (suo) cinema, era una gustosa fetta di torta: immagine-simbolo che schiude il concetto di “anormalità” come unico modo di costruire un’altra realtà, diversa da quella quotidiana.

In fin dei conti, anche se in modo diverso dal solito, e con una regia sontuosa e appariscente, Hitchcock ha pennellato, in Il peccato di Lady Considine, una drammatica evasione in chiave romanzesca, avvolta da una patina di soave sentimentalismo che attutisce l’enfasi tragica mettendo in primo piano il volto di Ingrid Bergman, la diva che aveva già interpretato Io ti salverò e Notorius e che in questa seconda produzione indipendente del regista dopo Nodo alla gola, dà luce a un intrigo fatale di ambizione e vendetta, passione e sacrificio, ambientato nell’Australia del 1835.

Riprendendo il romanzo omonimo di Helen Simpson e affidandosi a Hume Cronyn e a James Bridie per la stesura della sceneggiatura, Hitchcock ha potuto giocare su accostamenti, contrasti e correspondances che svelano l’importanza della riflessione sul passato, elementi già presenti in Notorius - L'amante perduta e molto di più in Rebecca, capaci di dare profondità ad una storia traboccante di passioni cristallizzate alla maniera dell’amore stendhaliano: cieli tersi che si sposano all’ovale luminoso di Ingrid Bergman, il contrasto tra le aperture sulla baia di Sidney e il chiuso ottenebrante della magione di Sam Flusky, l’ariosità imperturbabile del giorno e il suo rovescio negli slanci del furor sentimentale, la gradazione luministica che, da toni splendenti vira verso un pallore generale, ricordando le storie di amori inappagati e riconnettendosi al manque del melodramma.

La contemplazione e lo studio dei personaggi superano il dinamismo dell’azione e il dispiegarsi della vita emotiva dei protagonisti, immersi in una giostra di passioni e (ri)sentimenti, si avvicina di più al cinema della descrizione e del racconto che a quello dell’invenzione e dello svelamento. Fondamentale scelta estetica in Under Capricorn è poi l’utilizzo dell’immagine autosufficiente - un altro modo per riflettere sull’idea hitchcockiana che ciò che si vede sullo schermo deve tenere conto della capacità che ha l’occhio umano di non divagare – riempita dalla figura di Ingrid Bergman e dal peccato che la consuma, capace di portare alla luce l’altro Hitchcock, quello dei dialoghi poetici, del romanticismo che dal tono idillico si volge in incubo allucinato e della tecnica del long take già sperimentato in Nodo alla gola.