“C’è qualche film di cui puoi dire è perfetto, non toccherei niente?”
“Se potessi mettere una pellicola sulla mia tomba… vorrei che fosse Il pianista

Nella lunga intervista di Andrew Braunsberg a Roman Polanski, che è alla base del documentario A Film Memoir, il famoso regista polacco indica Il pianista come film epitaffio alla sua vita. Vedere o rivedere questo film, a più di vent’anni dalla sua prima uscita, ci spinge quindi oggi a considerare non solo l'opera in sé ma a ripensarla come elemento eloquente della filmografia e della poetica di Polanski. Vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes e di ben tre premi Oscar (regia, attore protagonista e sceneggiatura non originale), Il pianista è tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Władysław Szpilman e racconta la vita del musicista ebreo dal momento dell’occupazione tedesca di Varsavia fino alla liberazione della capitale polacca.

Polanski segue Szpilman – interpretato da un giovane Adrien Brody – dai primi momenti di incredulità davanti alla discriminazione ebrea fino all’orrore della persecuzione e dello sterminio nazista. Il suo stupore inziale per la costruzione di un muro che delimita la zona cittadina riservata agli ebrei si stempera nella forzata quotidianità di vita nel ghetto per lasciare poi spazio allo sgomento della fuga dalla deportazione e poi al disperato tentativo di sopravvivere nascosto come un fantasma. Il regista ci racconta in soggettiva, e quindi in maniera molto coinvolgente, la vita rocambolesca di Szpilman, fatta di fame, di solitudine, di stordimento e di tragici espedienti per sopravvivere.

A una prima parte più corale, in cui nella narrazione viene coinvolta la famiglia insieme agli amici, ne segue una seconda più focalizzata sul pianista che, una volta uscito dalla prigionia nel ghetto, è costretto a nascondersi nella Varsavia occupata dai tedeschi, diventando a tutti gli effetti un fantasma. Polanski lavora molto sulla corporeità e sui corpi di questo film, in primis su quello di Brody, che affila e smaterializza in una lenta e progressiva consunzione, ma anche sui tanti altri che compaiono di sfuggita. Corpi strappati alla quotidiana tranquillità e consegnati all’orrore del tempo di guerra. Corpi offesi, straziati, profanati, che anche dopo la visione del film emergono dalla nostra memoria come comparse zombi: l’anziano dirimpettaio gettato dalla finestra, il bambino conteso ed estratto morto da un buco sotto al muro, la donna colpita alla schiena e accasciata davanti all’ospedale. Corpi che abitano spazi sempre più ristretti, come se la mancanza di libertà erodesse anche lo spazio vitale in cui si muovono.

Non a caso Il pianista è un film fatto di pertugi, di buchi, di scatole, di anfratti da cui Szpilman e gli altri protagonisti sfuggono continuamente come topi braccati, come prigionieri di un incubo da cui non ci si può svegliare. Pensiamo al sottopalco in cui si nascondono il protagonista e l’amico impresario mentre tentano di sfuggire alla deportazione (con una magnifica ripresa a testa in giù a suggerire l’entrata in un mondo nuovo e rovesciato, un mostruoso sottosopra da cui, da quel momento, sarà difficile uscire). Pensiamo ancora all’intercapedine in cui viene nascosto il pianista dentro a una cantina, agli angusti e silenziati appartamenti o alla soffitta escheriana dell’ultimo rifugio. E tutto questo mondo è reso ancora più rarefatto e allucinato dalla sapiente fotografia di Paweł Edelman che desatura i colori del film man mano che la vicenda del pianista procede verso l’epilogo. E alla fine del film anche noi spettatori siamo abitati dal fantasma di Szpilman, siamo in quelle mani tremanti che desiderano solo suonare e siamo in quegli occhi che desiderano solo aprire la scatola di cetrioli per mangiarseli (gli stessi cetrioli così ardentemente desiderati da Polanski durante la sua infanzia a Cracovia).

Al di là delle assonanze tra la vicenda biografica del giovane Szpilman a Varsavia e l’infanzia di Polanski a Cracovia, non è possibile trascurare il fatto che fra l’uscita del film nel 2002 e la sua attuale versione restaurata sono stati realizzati due documentari dedicati al regista: A Film Memoir del 2012 e il recente Hometown – La strada dei ricordi del 2021. Mentre il primo ripercorre vari momenti della vita del regista polacco, il secondo, firmato da Mateus Kudla e Anna Kokoszka-Romer, è incentrato sul recente viaggio di Roman Polanski e dell’amico e fotografo polacco Ryszard Horowitz a Cracovia, nei luoghi che hanno condiviso insieme da bambini, da ragazzi e da giovani adulti. Nati a sei anni di distanza (Polanski nel '33 e Horowitz nel '39) i due amici e le loro famiglie sono stati testimoni diretti delle persecuzioni e delle deportazioni nei campi di concentramento (Horowitz è stato internato ad Auschwitz e salvato insieme alla sorella da Oskar Schindler) ed entrambi hanno poi lasciato la Polonia negli anni Cinquanta.

Non è forse un caso che Polanski consideri Il pianista il suo film epigrafe e che Hometown dedichi una delle prime sequenze proprio al cimitero di Cracovia dove i due amici passeggiano fra le tombe ricordando – anche con aneddoti spassosi – i propri cari lì sepolti. L’infanzia di Polanski è, d’altra parte, materia filmica per eccellenza: la nascita a Parigi, il trasferimento a Cracovia, la vita nel ghetto, la deportazione di famigliari, amici e conoscenti (la madre e la sorella muoiono in campo di concentramento mentre il padre sopravvive e si risposa ma rimanendo lontano dal figlio), l’essere sopravvissuto per puro caso a un bombardamento, la fuga attraverso un varco di filo spinato aperto dal padre prima di essere deportato, il suo rimanere orfano ed esser affidato a una famiglia sconosciuta e non ebrea.

Eppure Polanski si è sempre rifiutato di creare un film con questi ricordi, così come si è rifiutato di comparire anche solo in un cammeo all’interno del Pianista. “I ricordi – dice il regista in Hometown – sono terribili, lo devo ammettere, non li voglio cancellare, voglio che rimangano nella mia memoria così come sono [...] è per questo che non voglio fare un film su quel periodo a Cracovia. Sono ricordi molto importanti per me. Questa visita li sta un po’ offuscando. Ma sarebbe peggio se facessi un film, se dovessi ricostruire i luoghi, rifare tutto artificialmente, non rimarrebbe più nulla nella mia memoria”.

Tuttavia dentro al Pianista troviamo memorie, tracce, squarci che guardano, più o meno consapevolmente, all’infanzia di Polanski e che vanno a fondersi con i temi più ossessivi della sua filmografia: il passato che ritorna, la persecuzione per colpe non commesse, la molteplice incarnazione del male, il ruolo salvifico dell’arte, la realtà che sfuma in toni irreali, gli aspetti ironici della vita che viaggiano a braccetto con quelli macabri.

In Hometown il fotografo Ryszard Horowitz parlando della sua arte e di quella dell’amico regista dice: “Siamo il prodotto del passato, di ciò che abbiamo vissuto”. E in questo senso forse si spiega la scelta dell’epigrafe: Il pianista – narrando di Szpilman, ma anche di vita vissuta in prima persona, fatta di morte, di dolore, di sopravvivenza e di fantasmi – è il film che maggiormente ci parla di Roman Polanski e del suo cinema.