"L’amore era un sentimento contro natura, che dannava due sconosciuti a una dipendenza meschina e insalubre, tanto più effimera quanto più intensa"

Dell’amore e altri demoni

Questo lo scriveva Gabriel García Márquez in una storia d’amore (e morte) al limite dell’impensabile, quella tra un esorcista e una ragazzina, Sierva María, che la comunità ecclesiastica credeva essere posseduta da “tutti i diavoli dell’averno”. Ha un nonsoché di austero e sinistro questo racconto, tanto più se consideriamo che i capelli della giovane sarebbero cresciuti in maniera esponenziale anche dopo la morte. Ma questa è un’altra storia. Nella dicotomia amore - dipendenza, sentimenti interconnessi e indivisibili, in cui però c’è sempre una certa circolarità, Marquez ritrova l’essenza, oscura (oscena) e reale, del primo dei due, mettendone in discussione lo statuto puro e spirituale, a favore di un qualcosa di perverso – nel significato etimologico del termine – e ossessivo, che trae dalla natura dei sensi la propria linfa vitale.

Parliamo di ossessione o amore? O si tratta di un connubio di forze devastante? Sono le stesse domande che non possono non scaturire dalla visione de Il portiere di notte di Liliana Cavani. L’unicità del film consiste nel fatto che la Cavani mette in scena una storia d’amore tra vittima e carnefice, dove la ex deportata rincontra il suo aguzzino e sceglie di ritornare con lui e di riprodurre, tra le mura dell’appartamento di Max, la dimensione del Lager, sino all’inevitabile morte della coppia, secondo i dettami della formula eros/thanatos.

Il film ha suscitato aspre critiche, prima fra tutti quella di Primo Levi. Lo scrittore afferma che la psicanalisi è inutile per cercare di capire l’esperienza concentrazionaria, come appunto intende fare la Cavani, non solo nella dinamica sadomasochista tra i due protagonisti, ma anche nelle scene del “gruppo di autocoscienza” degli ex nazisti, che, sotto la guida di Gabriele Ferzetti in veste di terapista, provano a liberarsi del senso di colpa.

"Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità". Scriveva. D’altro canto, la regista, a cui era stato chiesto di esprimere in breve il senso del film, ha dichiarato: «Siamo tutti vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e Dostoevskij l’hanno compreso bene», dichiarando di credere che in ogni ambiente e rapporto ci sia una dinamica vittima-carnefice più o meno chiaramente espressa e vissuta a livello anche non – cosciente.

Prescindendo per un attimo dall’interpretazione psicanalitica del rapporto inscenato da Charlotte Rampling e Dirk Bogarde, quest’opera, quella per cui la regista – che sarà insignita del Leone d’oro durante la Mostra del Cinema di Venezia – viene quasi sempre ricordata, sonda i limiti di un territorio ormai reso umbratile e sbiadito, distorcendone i limiti e la nostra percezione e creando sullo sfondo dell’Olocausto una vicenda d’erotismo malato e invasato, osando e scandalizzando come la maggior parte dei cineasti di quel periodo. Era il 1974 quando la pellicola uscì nelle sale, l’ombra lunga del Sessantotto, «trasgredire era importante», come affermava Bertolucci e la Cavani si insinua perfettamente in questo raggio d’azione.

Due anni di distanza separano il film della Cavani da Ultimo tango a Parigi, dove le dinamiche, escludendo il background, non sono poi così dissimili: anche Paul e Jeanne sono pervasi da un’onda di erotismo che li stravolge, ingabbiati nell’illusione di credere di sapere chi si ha di fronte pur non conoscendosi formalmente: si fanno del male ma non possono fare a meno l’uno dell’altra, alla stregua di Max e Lucia. Questi personaggi non hanno identità, ciascuna individualità viene sopraffatta, ignorata e a ciò concorrono sia la vittima che il carnefice, anche se, in seguito, il confine tra le due dimensioni diverrà sempre più labile; «Mi convinco sempre di più - sosteneva Fassbinder - che l’amore è lo strumento migliore […] più insidioso ed efficace di oppressione». Ritorniamo a Marquez e alle parole della Cavani, e la sostanza del discorso è la stessa: in un gioco di ruoli masochistico ed estremo, il meccanismo di oggettivazione dell’altro da sé risulta sempre totale e pervadente, e, non per caso, autodistruttivo.