Un anno dopo la Chloé Zhao di Nomadland, un’altra regista donna spalanca la porta sul west di John Ford, sui suoi uomini e sulle sue donne, e se la cinese Zhao ne suggeriva spazi e orizzonti come luoghi da cui ripartire per immaginare il futuro, la neozelandese Campion vi si accomoda per ridefinire il concetto di virilità.
Dal John Wayne di Sentieri selvaggi ai cowboy di Brokeback Mountain, al padre riluttante del Grinta dei Coen (remake di un altro film con John Wayne), passando per l’affatto femminile Fern di Nomadland fino all’inquieto Phil di Il potere del cane, un filo continua a dipanarsi nel west degli Stati Uniti, e sembra solo aspettare la versione di Eastwood nell’imminente Cry Macho.
Jane Campion accantona con Il potere del cane il tema principe del suo cinema, l’erotismo in prospettiva femminile, per farsi guidare dal romanzo omonimo da cui il film è tratto nel Montana degli anni ’20, al ranch dei fratelli Burbank. Qui, l’equilibrio fra Phil e George viene rotto dall’ingresso in famiglia prima della moglie di George, Rose, poi di Peter, il figlio adolescente che Rose ha avuto dalla sua precedente unione. Un trapezio irregolare congiunge in modi imprevisti nella stessa casa quattro persone spinte l’una dall’altra ai loro angoli, illuminati dalla fotografia di Ari Wegner per lo più da luci di candela e dal segreto a loro innato.
Phil, George, Rose e Peter. Li conosciamo tutti nel primo capitolo del film, che procede poi sinuoso fra ritmi sospesi e indecifrabili, quadri di paesaggio dall’ambigua bellezza e approfondimento sotterraneo delle personalità dei protagonisti. L’allusiva prepotenza sessuale di Phil, minaccioso e offensivo, la mitezza generosa di George, la fragilità di Rose e la delicatezza di Peter, ancora acerbo: su queste connotazioni immediate Jane Campion crea un’attesa che cresce ad ogni sviluppo narrativo, ribollente come i traumi inespressi dei personaggi e puntualmente riconosciuta all’ultima Mostra di Venezia con il premio alla miglior regia.
Di cosa è fatto, dunque, un uomo? “Di pazienza e delle probabilità a suo sfavore”, dice Phil a Peter citando il venerato mentore Bronco, colui che lo ha forgiato come il rude e intollerante mandriano che è diventato. “Degli ostacoli che affronta”, replica il diafano Peter riportando una frase del padre, suicida. Prospettive valide entrambe, sembra dirci la Campion nel seguire i percorsi di crescita e mutazione dei due, opposti per risoluzione -liberatoria l’una ed involuta l’altra- e depravazione, assente in uno, sbocciata nell’altro. Non così immediato, però, qui il miracolo del film, stabilire per quale dei due valga l’una o l’altra visione.
Quel che è certo è che se la figura di Phil è vestita di carismatica benché mutevole virilità dalla prima all’ultima inquadratura, il merito non è solo della caratterizzazione acuta della Campion, che lo mostra, nell’arco degli eventi conflittuali che lo investono, rabbioso, inesploso e tormentato alla stregua del Daniel Plainview di Il petroliere. L’interpretazione di Bernedict Cumberbatch -corpo, occhi, mani e voce mascolini come ormai le donne hanno smesso di sognare da tempo, e come forse solo una regista poteva restituire al cinema- ha davvero qualcosa di epico quanto quella di Daniel Day-Lewis nel film di Anderson, apertamente chiamato in causa dalla Campion nella scelta del compositore della colonna sonora, Jonny Greenwood. Laddove Plainview seduto a terra diceva “I’m finished”, Phil rialzatosi a fatica dal letto chiede “Dov’è il ragazzo?”.