E se vi dicessi che Napoleone appariva in Blade Runner? All'incirca. Nell'antro di J.F. Sebastian, nella scena in cui questi rincasa insieme a Pris, vengono ad accoglierli alla porta due creazioni dell'inventore: due pupazzi in alta uniforme vestiti come il Kaiser Guglielmo e, appunto, Napoleone. Un Napoleone un po' buffo un po' inquietante, che trotterella emettendo strani versi, parodia del Potere e fantoccio tragico di un mondo in cui tutto è replicante, spossessato del proprio destino e della propria soggettività.
Poco prima, nel folgorante esordio I duellanti, le campagne napoleoniche facevano da sfondo al balletto meccanico di altri due automi in divisa, gli ufficiali Feraud e d'Hubert costretti a massacrarsi in eterno dai codici dell'onore e dell'etichetta militare. Quarant'anni dopo, più che la biografia di un grande personaggio, Napoleon di Ridley Scott sembra ancora voler raccontare la storia di quel pupazzo.
Ci sono due modi di approcciare criticamente un'opera come Napoleon. Il primo è valutarne la riuscita come film epico-storico hollywoodiano, produzione superlusso con aspirazioni di grande spettacolo in grado di capitalizzare sulla leggenda e il fascino popolare del suo protagonista. In questo senso, togliamoci subito il dente, il film è un fallimento totale. Un pastrocchio di due ore e quaranta (quattro in director's cut!) dove a una sceneggiatura confusa e mal congegnata si appoggia un comparto visivo letteralmente imbarazzante per piattezza fotografica, pochezza degli effetti digitali, errori di montaggio e di messa in quadro.
Perfino le scene di battaglia, marchio di fabbrica dello Scott anni Duemila con film come Il gladiatore o Le crociate, pur stagliandosi sul resto non superano il livello di un onesto e noioso mestiere. Le speranze di Apple Studios di mettere a segno un altro successo di critica dopo Killers of the Flower Moon, unendo magari al valore reputazionale un incasso rispettabile, rischiano così di tradursi in un brusco risveglio. Davanti a Napoleon, come sa chi l'ha visto in sala, non si resta coinvolti o appassionati: ci si annoia, e spesso si ride.
Ma è proprio qui - la faccenda del ridere - che si biforcano le strade della critica su Napoleon, e in un certo senso su tutto il cinema recente di Scott. A rendere difficile il giudizio è la confusione che film come questo, House of Gucci (2021) o Tutti i soldi del mondo (2017) mettono in campo fra la decadenza in quanto categoria del discorso critico sul regista Scott e la decadenza in quanto parte coerente del discorso politico dell'autore.
Da una parte non ci si capacita che l'uomo un tempo noto come "the best eye in Hollywood", il regista della "forma a scapito della sostanza", giri oggi film esteticamente così poveri, spesso ben oltre il limite della sciatteria. D'altra parte, l'inasprirsi del discorso scottiano intorno al tema della vacuità del potere, con riflessioni su creatori e creature (Exodus, il dittico Prometheus ma anche la produzione di Blade Runner 2049), imprenditoria criminale (The Counselor, House of Gucci) e perversi codici di condotta medievale (The Last Duel) hanno portato una parte della critica a vedere in questi apparenti disastri una scelta coerente di impronta satirica: fare schifo, in buona sostanza, per restituire fedelmente la natura comica e grottesca delle relazioni di potere, dove si uccide e si muore nell'illusione di controllare un meccanismo che reciprocamente ci controlla in quanto soggetti storici e sociopolitici.
Si tratta di una strada impervia, perché il rischio di sovra-interpretare è forte, e così quello di voler tirare per i capelli una dignità artistica alle opere senili di un regista dal passato tanto illustre. Eppure, senza per questo cercare di salvarlo (sarebbe francamente difficile) Napoleon sembra fornire indizi importanti sull'esistenza di una linea comico-satirica negli ultimi lavori di Scott. Dopotutto questo film e House of Gucci non sono affatto "mediocri" nel senso che generalmente si dà al termine: sono anzi, nella loro ridicolaggine, assolutamente notevoli, perfino memorabili, al punto da portare lo spettatore avvertito a chiedersi se sia possibile che tanto divertimento scult sia del tutto involontario.
Se già la performance di Jared Leto in Gucci aveva fatto suonare un campanello d'allarme, quella di Joaquin Phoenix in Napoleon (e in generale la caratterizzazione del personaggio) sigilla la questione: è impossibile che il film non miri a ridicolizzare e rendere buffo l'Imperatore. Vedere Napoleone ruzzolare giù per le scale - due volte - abbioccarsi continuamente durante colloqui politici e amministrativi, sedere sul trono dello Zar di Russia grondante cacca di piccione, eccitarsi come un mandrillo in presenza della moglie Giuseppina (Vanessa Kirby) o mettere il proprio cappello a una mummia costituisce un'infrazione talmente esilarante alla seriosità dell'epica in costume da rivestire quasi automaticamente un valore demistificatorio rispetto all'aura del grande personaggio che "fa la storia".
Con questo non si può e non si vuole liquidare il sentore di una decadenza del cinema di Scott. Il dubbio che dietro l’inguardabilità dei suoi ultimi film ci sia più semplicemente un regista anziano, svogliato, che ha perso il tocco, è sempre dietro l’angolo. Senza dimenticare che rispetto agli anni Duemila quello che è venuto a mancare è un intero modo di fare cinema hollywoodiano, cancellato dalla digitalizzazione e dallo spostarsi dell’epica sul piccolo schermo (solo un pubblico ormai abituato a considerare “belle” le scene di battaglia del Trono di spade può non accorgersi di quanto stanche, prive di respiro ed esteticamente manchevoli siano quelle di Napoleon).
Due cose possono essere vere contemporaneamente: che Scott sia un regista in declino, autore di un cinema che non ha più cittadinanza nella contemporaneità, e che da questo declino non sia aliena una certa coerenza tematica, che se non rende più belli i suoi film possa almeno spiegare perché a tratti appaiano così platealmente, scientificamente, espressivamente brutti. Solo così potremo – in barba all’oltranzismo autoriale – distruggere Napoleon e contemporaneamente non vergognarci di notare nella meccanicità compulsiva delle scene di sesso l’ennesimo riferimento all’“uomo-macchina” settecentesco che tanto affascinò Kubrick e Fellini, e che Scott metteva in scena nel suo capolavoro con quel pupazzo ridicolo dal cappello troppo grande.