Il punto di rugiada è la temperatura di raffreddamento dell’aria che consente il processo di condensazione del vapore acqueo ivi presente e può creare, a volte, le condizioni per una nevicata. Questo è il concetto fisico che ha ispirato il titolo del film di Marco Risi ma inevitabilmente vi è anche un significato metaforico che allude al punto di trapasso dell’esistenza umana.

Il racconto inizia nel 2018, si suddivide in “stagioni” ed è la messa in scena, nel luogo chiuso di Villa Bianca (un’elegante struttura per anziani), di non facili rapporti tra persone attempate e due giovani condannati ai servizi sociali. Queste precise indicazioni spazio-cronologiche sono anche i segn(al)i del destino che si compirà con la pandemia di Covid-19, il cui virus sarà l’”ospite” finale.

La casa di riposo appare come un lussuoso over-look hotel sospeso negli anni, isolato dal gelo, poi circondato da un immacolato manto di neve (in una sequenza emozionante i pensionanti, sorpresi dai candidi fiocchi, ri-tornano a giochi infantili).

Quello che succede nelle novecentesche camere dell’albergo è il riflesso di una macchina del tempo che vede i decadenti protagonisti ri-emergere dal loro passato: il colonnello Pietro (Eros Pagni, la ruggente voce italiana del sergente maggiore Hartman, un’eco spettrale dalla caserma di Full Metal Jacket), l’attrice Antonella (Erika Blanc che guarda il suo giovane e inquietante volto in un film horror da lei interpretato), l’ironico showman Mario dall’eloquio inconfondibile (il comico pugliese Maurizio Micheli) con la fama di seduttore, il fotografo Dino (Massimo De Francovich, che ri-specchia il carattere e lo sguardo di Risi padre), il poeta Federico (Luigi Diberti che ri-legge le parole di Nelo, zio del regista).

Come si può notare, ad ognuno dei “vecchi leoni” (che spesso si soffermano su documentari etologici televisivi) è stato assegnato il nome di un grande cineasta (Germi, Monicelli, Fellini). Inoltre questo cast di attori ha calcato prestigiosi palcoscenici con geniali menti del teatro (inter)nazionale, da Ronconi a Strehler.

Non mancano almeno un paio di riferimenti letterari: uno è certamente Anton Cechov, citato esplicitamente nel film con La malinconia, storia di un triste vetturino in età avanzata, ormai solitario, che finirà per confidare le sue pene ad una cavallina, bianca e immobile, unica compagnia. L’altro è Thomas Mann, con uno dei romanzi preferiti dello stesso Risi ossia La montagna incantata, scandito da ciclici intervalli nei primi anni del Novecento, ambientato in un sanatorio sulle Alpi svizzere con pazienti affetti da tubercolosi che parlano delle loro filosofie di vita e contraddizioni.

Tra i richiami metatestuali ci sono le canzoni degli anni ’60 (E la chiamano estate, Stasera mi butto, Riderà) che sono le più ascoltate da Carlo (un intenso Alessandro Fella) e Manuel (un vivace Roberto Gudese), i due trentenni che, come in una speculare luccicanza, si ri-trovano con i gusti musicali di quelli che allora erano loro coetanei.

Il figlio d’arte Risi si tuffa in un lago gelido di ricordi, rievocando nobili fantasmi, con-firmando che non esiste comprensione del presente senza la “visione” del passato (paradigmatico il confronto/montaggio tra “memorie” di generazioni differenti nelle riprese a tavola) e ci offre un avvelenato cine-panettone con personaggi/interpreti che vivono l’ultimo capodanno come ragazzi fuori dal tempo.