Un uomo su una spiaggia, fasciato in un completo azzurro, conclude una telefonata e si avvia a passo sicuro verso un ristorante entrandovi dall’accesso di servizio, la cucina, accolto dal personale al lavoro con la confidenza formale che i dipendenti riservano ai padroni. Non è il proprietario, solo un cliente abituale: passa alla sala da pranzo, si siede a tavola con una manciata di commensali vivaci e rampanti, si presta alle loro battute, è disinvolto, benvoluto, padrone della situazione. Sono i suoi compagni di partito, amici e colleghi con cui condivide tutto, confidenze sulla salute, sui figli, sulle vacanze appena trascorse. E corruzione. Il sistema lo protegge, sa che ruba denaro pubblico, ricatta, trucca appalti, e gli sta bene che lo faccia. Finché l’indagine su uno di loro si allarga e tocca anche lui, minacciando prima la sua posizione nel partito, la cui scalata è ad un passo, poi tutta la sua vita.

L’incalzante racconto a seguire è la sua inesausta, muscolare reazione allo shock dell’abbandono degli ex amici -pesantissimo per chi, ancorché disonesto nel midollo, ci aveva creduto e dato tutto-, alla prospettiva di finire in galera pagando da solo per tutti, o peggio ancora fuori strada all’improvviso, magari mentre è alla guida di un’auto in corsa.

A un anno dall’uscita in patria ed in contemporanea con la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia del suo ultimo lungometraggio, Madre, arriva in sala Il regno, del trentacinquenne regista spagnolo Rodrigo Sorogoyen, vincitore lo scorso febbraio dei premi Goya a regia, sceneggiatura, montaggio, musica, sonoro ed interpreti. All’appello manca solo il riconoscimento al miglior film. Che l’Academia spagnola abbia temuto l’immagine della Spagna e dei suoi politici delineata da Sorogoyen, anche autore della sceneggiatura con Isabel Peña? O che abbia in un certo senso punito il pur bravissimo regista per essersi limitato a confezionare un assillante, perfetto meccanismo d’azione senza elevarlo ad altro?

Sta di fatto che le intenzioni di Sorogoyen sembrano dichiarate proprio in quella scena d’apertura, e il destino di Manuel López-Vidal, il dirigente provinciale di partito che ne è il protagonista, suggerito con un mezzo ghigno dall’autore nell’imitazione che Manuel regala ai colleghi di Alvarado, lo spazza-corrotti appena entrato nel partito, dalla faccia alla Dolph Lundgren. Sì, perché Manuel proprio da quel robotico indistruttibile modello deve trarre ispirazione per salvarsi, spostando il limite di ogni suo precedente azzardo corrispondentemente ai rilanci che il destino avverso gli rimanda ad ogni passo della sua corsa alla salvezza.

Se proprio si deve scegliere una scena fra le tante fenomenali che si susseguono nel film, eleggiamo il piano sequenza di nove minuti a casa della figlia di uno dei colleghi di Manuel, dove quest’ultimo cerca, interrompendo una festa fra ventenni, le agende che provano il coinvolgimento nel malaffare dei vertici nazionali del partito. Racchiude e sintetizza l’energia sprigionata dalla pellicola ad ogni snodo successivo, l’abilità di Sorogoyen nella direzione degli attori e lo schema programmatico del racconto: un climax di tensione applicato ad ogni scena e a sua volta contenuto in quello che tende il film fino allo strappo finale, affidato alla domanda di un’ambiziosa giornalista: “Cosa pensava mentre rubava?”.