Per Ferzan Ozpetek il progetto di questa serie TV, in esclusiva sulla piattaforma Disney Plus, si configura subito come una grande occasione per entrare nuovamente nelle sue storie, nei suoi personaggi, nel suo mondo poetico e umano e sviscerarne nuovi aspetti, approfondire, allargare confini narrativi e geografici, chiamare in causa nuovi e vecchi amici di cinema, frammentare prismaticamente la sua voce di autore, dentro ad una moltitudine di micro storie e di vicende umane. Una frammentazione che in realtà consente in modo ancora più forte di ricomporre quella idea di mondo (e di cinema) che il regista va tracciando con sempre maggiore chiarezza film dopo film, lungo una carriera che ha da poco raggiunto il quarto di secolo.

La vicenda è ricalcata interamente sul suo film originale del 2001 ed è inalterata nelle sue componenti principali: Antonia dopo la scomparsa di Massimo, suo marito, a causa di un incidente stradale, si trova a raccogliere i cocci di una perdita insensata e inaccettabile. Fra le cose di Massimo, ritrova un quadro che nel retro riporta una dedica che rimanda inequivocabilmente ad un rapporto del marito con un altra persona. Cercando di saperne di più scopre ed entra in contatto con un mondo di persone che ruotano attorno a Michele, l'amante del marito. Una umanità varia, sorprendente, vitalissima, che a tratti spaventa Antonia ma che alla lunga la conquista e la seduce.

Occorrerà subito considerare il grosso rischio al quale è andato incontro il regista nel rimettere le mani sul suo film più iconico e celebrato, un film che quando apparve fu quasi una deflagrazione nel portare alla luce con una naturalezza che sorprese, imbarazzò e forse scandalizzò anche tanto pubblico nostrano, tematiche omosessuali, transgender, di identità di genere o più semplicemente queer, alla ricerca di una trasversalità libera e libertaria, lontana non tanto dalle etichette ma dal bisogno stesso di etichettare.

Il principale rischio che si è preso Ozpetek è dato da  un elemento che certamente è venuto a mancare, (e non potrebbe essere altrimenti) ed è quella seducente aura di mistero, di sospensione e di ambiguità che attraversa il primo film. Impossibile reggerla per le quasi 7 ore di durata della serie, senza snaturarla. Allora meglio giocare a carte scoperte e usando il film precedente come canovaccio, andare ad aprire alcuni dei tanti cassetti lasciati chiusi, provare anche a dare delle risposte oltre a suggerire solo domande, là dove il non detto e il sottinteso erano la sostanza stessa del film, qui occorre sciogliere molti di quei nodi che aiutavano invece a nutrire l'ambiguità dei rapporti fra i personaggi e rappresentavano anche in definitiva tanta parte del fascino di quella pellicola.

Si è scelto dunque di lavorare in estensione e in profondità, usando con intelligenza il tanto tempo a disposizione per innervare nel dramma principale una serie di micro storie, certe più abbozzate di altre ma tutte capaci di dare una maggiore tridimensionalità ai ruoli di contorno, regalando anche ad alcuni fra questi, momenti di notevole spessore, oltre ovviamente ad approfondire il rapporto del trio di protagonisti da cui tutto prende vita, Massimo, Michele e Antonia.

Un altro elemento delicato con cui ha dovuto fare i conti il regista è che solitamente il pubblico tende comprensibilmente ad affezionarsi ai volti dei personaggi e vive sempre una sorta di shock quando qualcuno vuole ripresentarglieli anche a distanza di anni interpretati da altri attori.

Inutile fare paragoni, soprattutto visto il tempo intercorso fra le due pellicole, non così tanto da facilitare un azzeramento di immaginario ma nemmeno così poco da non potersi liberare da certi volti a cui pure ci si sia affezionati. Il regista potendo lavorare in modo più approfondito sulle psicologie dei personaggi, sceglie dunque Eduardo Scarpetta per il ruolo che fu di Stefano Accorsi, spostando l'asse da una inquietudine incandescente ed esibita verso una maggiore compostezza drammatica, così come nella scelta di Cristiana Capotondi, decisamente più trattenuta ma a tratti anche più intensa, nel ruolo che fu di Margherita Buy, che caricava invece il personaggio di una fragilità nervosa e irrequieta.

Mentre rimette le mani sul suo film forse più amato, Ozpetek non perde l'occasione di trasformare questa serie, in una sorta di summa di tutto il suo cinema. Non per manie di protagonismo, nascoste spesso nelle autocitazioni, ma perché tutta la poetica del regista si fonda sul rapporto tra il passato e il presente, su come conciliare quello che eravamo con quello che siamo, su come riannodare i fili di un passato che in qualche modo occorre superare ma che è essenziale non dimenticare.

Scrisse Mereghetti sul Corriere, parlando di Napoli velata (2017): “Se c’è un tema che unifica i film di Ferzan Ozpetek è quello della perdita”. Se questo è certamente vero, è il percorso di elaborazione di questa perdita il nodo problematico più interessante del suo cinema. A ben pensarci infatti gli accadimenti presenti nei suoi film sono sempre puntellati da echi di un passato ancora vivo, in elaborazione, con cui ancora occorre fare i conti e non per una sorta di indisponibilità ad affrontarlo ma proprio, sembra dirci il regista, perché il passato resta presente, gli si affianca, vive con noi, partecipa alle nostre scelte e in qualche modo, se non le determina, certamente le influenza. La perdita dunque, non è mai una assenza.

Paradigmatica in questo senso la scelta frequente del regista di far comparire un personaggio che non c'è più, come fosse assolutamente vivo e presente in una determinata scena: Antonia sta uscendo dalla casa di Michele, si gira vero la sempre affollatissima cucina, ed eccolo lì Massimo, in piedi che le sorride, sereno, carico di una felicità assoluta e incomprensibile, che quasi le strappa un impercettibile sorriso. Scena assolutamente gemella a quella di Saturno contro (2007) nella camera mortuaria con Ambra che vede Argentero, da poco deceduto (sì, sempre lui), sorridente in mezzo a tutti gli amici.

Ma potremmo citare anche il ballo finale di Mine vaganti (2010), dove personaggi di ieri e di oggi ballano insieme, in un abbraccio collettivo  dove il passato reclama la sua presenza nel qui e ora della nostra vita. Si è nominato Saturno contro non a caso, perché i punti di contatto con quel film sono molteplici, non ultimo certamente la scelta di Argentero, il cui lutto viene elaborato per tutto il film dalla sua famiglia allargata, risultando elemento cardine che tiene unita l'intera comunità. 

È tuttavia la presenza di Ambra a creare il collegamento più profondo tra questa serie con quella pellicola del 2007. Personaggio secondario ma fondamentale nel film, nel quale dà una delle prove più convincenti della sua carriera (l'altra è in Notizie dagli scavi di Emidio Greco), anche in questa serie Ferzan le regala una parte molto ben studiata per quel suo sguardo sempre velato di malinconia anche nei momenti più gioiosi, così eccola nel ruolo di Annamaria impegnata in una relazione seria e civilmente sancita, con Roberta (che era il suo nome in Saturno contro) interpretata da Anna Ferzetti, ottima prova anche la sua. Cartomante, come già nel film del 2007, che cerca nelle stelle le chiavi di lettura che fatica a trovare nella realtà, qui soggetta a smottamenti emotivi profondi a causa di un tradimento di Roberta. Non ultimo, anche un'altra attrice a cui il regista regala qui un piccolo cameo, proviene direttamente da quel film: Milena Vukotic.

Allargando lo sguardo, potremmo dire che in effetti questa serie si nutre, oltre che del film che rimette in scena, anche di tutti i film corali precedenti del regista, Saturno contro, Mine vaganti e il suo ultimo, La dea fortuna, da ognuno di questi infatti Ozpetek trae personaggi, attori, nomi, ambienti, vicende, rapporti, che rimescola, rielabora e sviluppa come in una sorta di diario intimo a cui tornare per rileggersi e ritrovare se stessi e il proprio mondo.

Grande direttore di attrici e scrittore di parti femminili, il regista concede soprattutto a tre attrici del suo cast tre parti splendidamente cesellate, che ne mettono in risalto le grandissimi doti di interpreti, non sempre pienamente sfruttate nel nostro cinema: Carla Signoris, qui Veronica la madre di Antonia, che vola sopra tutti con un umorismo delicato e stralunato, mai disposta a farsi vincere dalla tristezza; Paola Minaccioni, Luisella, bravissima nel tratteggiare un personaggio in perenne frustrazione sentimentale, carica di una vitalismo sfrenato e un po' goffo e infine lei, Serra Yilmaz, la musa come già si è scritto, l'attrice che più di tutte rappresenta l'icona del cinema di Ozpetek che qui le consegna le chiavi drammaturgiche di tutta la serie, regalandole nell'ultima puntata una sequenza di rara bellezza, che lei, da attrice di livello qual è, regge con struggente malinconia.

Ancora molto ci sarebbe da esaminare e ragionare, in una serie tv così densa di rimandi e così ricca di cinema nella sua stessa essenza, tuttavia per funzionare deve potersi godere anche in leggerezza, senza che lo spettatore sappia troppo del suo autore o senza esserne necessariamente un appassionato estimatore. Diremo allora, più semplicemente, che questa serie viaggia veloce, lungo queste 8 puntate, scorre via come brevi tappe di una storia che si vorrebbe più lunga, tanto ci si affeziona facilmente a quella terrazza, a quei colori, a quei pranzi e a quei volti sorridenti.

Il dramma c'è ma non affossa mai la possibilità di un sorriso, si ride e ci si diverte, ma la malinconia è sempre presente e aiuta a dare profondità e spessore ai personaggi, alle loro storie e ai tanti sguardi sui quali la macchina da presa si sofferma, sedotta.
Dietro a tutto questo c'è tanto lavoro, pensiero, cinema, studio e vita, ma non si avverte.

Tutto è leggero e bellissimo, puissance sans poids, direbbero i francesi.