In principio era il racconto di Arthur Schnitzler del 1918. Nel 2023, arriva il film omonimo di Gabriele Salvatores, Il ritorno di Casanova, nel quale si narra non del relativo adattamento, ma di un regista cinematografico che da quel racconto ha tratto il suo ultimo lavoro (indovinate un po' il titolo?).

In questo meccanismo di scatole cinesi, lo spettatore in carne e ossa si trova a seguire quindi due storyline separate: quella di Leo Bernardi, cineasta impegnato a far di tutto per non finire il proprio film e a rimembrare un amore perduto (ulteriore piano temporale, nel caso steste tenendo il conto), e quella di Giacomo Casanova, ormai sopraggiunto a una certa età e di ritorno a Venezia, impegnato in una conquista nella dimora di un amico. Entrambi sono evidentemente ossessionati dal pensiero della propria vecchiaia.

Leo Bernardi si muove in un mondo in bianco e nero, con studiate sfocature parziali delle immagini nelle scene dei ricordi, a evidenziare come nella memoria certi dettagli restino ben più vividi di altri. È un mondo sognante che non può che rimandare a di Fellini, benché Salvatores nelle interviste ne prenda le distanze, ma fa anche inevitabilmente sovvenire l'amabile presa in giro di Woody Allen sull'uso del bianco e nero nei film europei che vogliono darsi un tono intellettuale.

Interpretato da un Toni Servillo al solito in grado di tenere perfettamente lo schermo, ormai ecumenico rappresentante della tragedia umana di ruolo in ruolo, Leo si ossessiona sul suo posto nel mondo presente, sopraffatto dalla sofisticata domotica di casa (espediente non molto originale, diciamolo) e tormentato dal pensiero dei colleghi giovani e talentuosi, senza capire più se li invidia perché sta male o sta male perché li invidia.

Il mondo finzionale di Casanova è ben più colorato e brioso. Non c'entra granché con le raffinate sottigliezze psicologiche di Schnitzler, vira piuttosto verso i limiti del farsesco e non nasconde nel ritratto della nobiltà qualche evidente omaggio goldoniano. Il teatro come forma, più ancora che come tematica, sembra essere al centro degli interessi di Salvatores in questi ultimi anni (si veda il precedente Comedians), quasi un cerchio che si chiude dopo gli esordi al Teatro dell'Elfo e l'opera prima Kamikazen – Ultima notte a Milano.

Il Casanova incarnato da Fabrizio Bentivoglio – qui alle prese con l'ennesima tragedia di un uomo ridicolo della sua filmografia, forse a dimostrazione di trovarci di fronte all'attore con meno ego dell'intero panorama italiano – è un povero omuncolo fragile e narcisista, tutto preso a cercare di dimostrare a se stesso di non aver perso la propria capacità seduttiva tramite la conquista di una bella giovinetta, che lo ammorba di soavi supercazzole proto-femministe non accorgendosi che lui guardandola pensa a tutt'altro.

E in entrambi i mondi finzionali Il ritorno di Casanova manifesta una contrapposizione esasperata fra personaggi maschili che hanno tutti i difetti, peraltro umanissimi, e personaggi femminili al limite dell'angelicato (vecchio vizio di Salvatores) che posseggono ogni virtù: donne forti, risolute, equilibrate, che non fanno un plissé nemmeno davanti a eventi alquanto funesti come stupri o gravidanze affrontate in solitudine.

Al di là di questa ubiquitaria e modaiola apologia del femminile, Salvatores non sembra ben sapere dove andare a parare esattamente. La sua disamina dell'invecchiamento non possiede né un acume analitico tale da stimolare particolari riflessioni, né una suggestione emotiva in grado di coinvolgere empaticamente lo spettatore. Le storie dei suoi due protagonisti continuamente si interfacciano tra loro sullo schermo, e si concludono entrambe in una sfida antagonistica contro un rivale giovane: c'è chi vince, c'è chi perde, palla al centro.

Alla fine l'unica conclusione che resta è che, comunque sia andata, finito un film ce n'è sempre un altro. Se poi si ha qualcosa da dire, tanto meglio.