In Il seme dell'uomo, Marco Ferreri evoca una "semina dell'avvenire" illusoria, un delirio d'onnipotenza destinato a spegnersi con la stessa estemporaneità con cui si è manifestato. Un ignoto evento catastrofico ha azzerato quasi ogni forma di civiltà umana, costringendo i due protagonisti Dora\Anne Wiazemsky e Cino\Marco Margine a rifugiarsi nell'inquietudine edenica di un litorale vuoto e abbandonato. Indotti al regresso, i due cominciano a vivere di loro stessi, lontani - sembrerebbe - da ogni forma di tentazione e peccato umani: depurati da un'ormai defunta nevrastenia mondana, si sentono legittimati a compiere le azioni più empie, senza, d'altra parte, alcun residuo di pentimento o debolezza, se non per quanto riguarda il momento spartiacque della vicenda, l'arrivo di una donna. Anne Girardot è il volto delle ossessioni di entrambi, l'ospite che sovverte gli schemi di un microcosmo gettato nell'anarchia: lo stesso enigmatico ospite che sconvolge gli equilibri della famiglia borghese di Teorema, entrambe divinità ex machina indotti consapevolmente a sviscerare le pulsioni e i meccanismi reconditi di un individuo ipocritamente immobile.

Se in La grande abbuffata Ferreri traduce la sua disillusione esistenziale nella logica perversa di un piacere mortifero, in questa visione utopica al negativo del mondo c’è un pessimismo radicalizzato e convergente all’interno di un’ottica in cui sembra non esserci alcun appiglio, quanto esclusivamente inquietudine avveniristica. Tra l'apparizione di una balena arenatasi sulla spiaggia, simbolico naufragio delle speranze di una società all'epilogo del Sessantotto, e l'improvvisa venuta di un'ospite, la questione che si pone fin dall'inizio Ferreri è una sola: continuare la specie o no? In altre parole, far sì che il seme dell'uomo germogli decretando, poi, l'eterno ritorno dell'uguale della storia del genere umano? 

La risposta cui allude il cineasta milanese conserva ben poco di salvifico o fiducioso, degradando l'uomo a mera macchina riproduttiva, vanesio e incline a far prevalere soltanto le potenzialità del proprio sesso. Desolazione hopperiana e inusuale verve surrealista incorniciano la vicenda di Cino e Dora, in un contesto scenografico minimo ed essenziale reso ancora più onirico dai repentini cambiamenti di filtro della fotografia, tra colori densi e l'opacità del buio notturno. La stessa Dora è un personaggio opaco, in apparenza imperturbabile e sfuggente: ma poiché il futuro è donna, Ferreri proietta nel suo rifiuto materno la preveggenza del nulla cui entrambi cadranno a capofitto, nel momento in cui l’uomo, questa volta, cederà alla vanità delle illusioni.