È straniante leggere oggi come si espresse cinquant’anni fa la critica a proposito di Soffio al cuore di Louis Malle. Il film fu presentato in concorso a Cannes nel 1971 e il regista fu nominato all’Oscar l’anno dopo per la migliore sceneggiatura originale, ma nel complesso l’incesto fra madre e figlio che lo risolve non destò eccessivo scalpore. La stampa europea e quella statunitense, anzi, accolsero con atteggiamento per lo più indulgente la violazione di quel tabù, ricevendola come Malle la diresse: un rito di passaggio giocoso e indolore. Ma un incesto può davvero essere rappresentato e preso così? Un processo analogo interessa un altro film del registra francese, Pretty Baby, girato qualche anno dopo negli Stati Uniti. Il clamore che ne nacque fu destato dal tema della prostituzione minorile e dalla presenza scabrosa di una Brooke Shields poco più che bambina, laddove la figura del fotografo che la sposa fu liquidata come quella di un benefattore, senza che si dedicasse la dovuta attenzione al suo stesso approfittare sessualmente di una ragazzina.

In modo simile, in altri film del regista il trauma, di qualsiasi natura, è deliberatamente silenziato, spinto verso la rimozione. In Arrivederci, ragazzi (1987) Julien, dodici anni come la Violet di Pretty Baby, saluta nel cortile di un collegio francese un coetaneo destinato ad Auschwitz con un “ciao” della mano, nel momento in cui una tragedia più grande di entrambi sta spezzando per sempre la loro amicizia. Nel film d’esordio di Malle, Ascensore per il patibolo (1958), due amanti mettono in atto con naturalezza l’omicidio del marito di lei, mentre nell’ultima opera dell’autore, Vanya sulla 42esima strada (1994), una compagnia di attori scivola in modo impercettibile dentro la prova dello Zio Vanya di Cechov poco dopo l’ingresso a teatro, senza soluzione di continuità.

Molto del cinema di Malle sembra risiedere proprio in queste cesure occultate, serie di cui forse l’incesto di Soffio al cuore è il vessillo. Siamo davvero certi che il patto da “amici con un beneficio” di madre e figlio e la loro complicità irregolare non siano la prova non tanto di un legame privilegiato, bensì di un fallimento generazionale e del dissesto dell’istituzione famiglia? Più che giustificare, dunque, un atto estremo come quello dell’incesto per l’abilità di Malle nell’arrivarci in modo incruento, sembra appropriato ribaltare la prospettiva, respingere la vicinanza sessuale fra i due e trovare le ragioni della deviazione estrema proprio in quello che li porta a condividere lo stesso letto, ubriachi e uniti, nella notte del 14 luglio.

Siamo a Digione, nel 1954, nei giorni in cui la Francia sta perdendo la guerra in Indocina, e Laurent, quindicenne della borghesia francese che frequenta una scuola cattolica e sogna di infrangere i sacramenti come Camus, fuma, legge Proust e Histoire d’O e ascolta il jazz di Parker e Gillespie. Cresce fra le angherie dei due fratelli maggiori, che come lui, un po’ meno di lui, condividono un rapporto alla pari con una mamma-bambina (Lea Massari) “priva di qualsiasi pudore”, come lei stessa si definisce, e uno reciprocamente irrispettoso con un padre svalutante. C’è un po’ di Nouvelle Vague nell’incipit del film in cui si delinea questo quadro. Sebbene Malle sia sempre rimasto ai margini del movimento di Truffaut e Godard, l’accostamento fra Laurent e l’Antoine Doinel de I quattrocento colpi suggerito a suo tempo dal critico Roger Ebert appare indovinato, così come le scorribande in strada di Laurent sono parenti strette di quelle di Belmondo a Parigi in Fino all’ultimo respiro.

Ma dal momento in cui si entra nella bella casa dei Chevalier, è la famiglia a diventare centrale e si fa strada qualcosa di diverso, nello stile e nel tono, cui Bertolucci con i suoi Dreamers (2003) ha reso tutto il suo personale debito. Stessi giochi di specchi, stesse stanze e trasgressioni, stessa contestazione delle figure genitoriali, con la Storia a fare da cornice del passaggio all’età adulta. E la reclusione incestuosa? Malle è più ambiguo di Bertolucci, e più audace. Se i gemelli di The Dreamers sono bambini casti e non amanti peccaminosi, Laurent, chiuso nella stessa stanza con la madre nell’albergo termale in cui cura il suo soffio al cuore, fa l’adulto e non gioca a farlo. Convive con una mamma discinta e immatura, desiderata dai ragazzi che come lui si curano nel centro; ne subisce l’abbandono per qualche giorno e la rassicura al suo ritorno, consolandola per la fine del suo amore extraconiugale con parole che sono la prova dell’avvenuta inversione dei ruoli: “qualunque cosa tu faccia, io sarò sempre con te e ti vorrò sempre bene”.

A rapporto consumato, dopo la notte che completa l’iniziazione sessuale di Laurent con un secondo immediato amplesso con una coetanea, la famiglia, riunita in quella stanza d’albergo, lo accoglie scalzo e con la camicia di fuori al ritorno dalla sua avventura e scoppia in una fragorosa risata. Destabilizzati e pieni di dubbi, pensiamo a Tempesta di ghiaccio di Ang Lee (1997) e al suo finale altrettanto enigmatico, che allo stesso modo ci consegna una famiglia sì ricongiunta, ma del cui immediato futuro non abbiamo idea di cosa prevedere.