Finalmente, dopo un anno di stasi distributiva e una conseguente complessa traversia legale, esce in sala, a quarant’anni esatti da Manhattan (1979), questo nuovo lavoro di Woody Allen. Il riferimento a quel film è in effetti quasi obbligatorio e pur se piuttosto scontato, è tutt’altro che superfluo ribadirne il legame. Un film che si apriva con la volontà di dichiararsi perdutamente innamorato della propria città senza riuscire a scrivere le parole giuste per definirla. “…era la sua città e lo sarebbe sempre stata”, chiosava poi, Isaac/Allen aprendo il sipario.
New York qui è invece un approdo momentaneo, una città da riscoprire solo per un fugace weekend per una coppia di innamorati: Ashley e Gatsby. Il resto è un brillante girotondo di amori nel più tipico stile alleniano, nel quale i due protagonisti, separati a causa di un impegno di lei, finiscono per vivere una giornata piena di incontri e rivelazioni, con i loro sentimenti continuamente messi alla prova e una ingombrante città, sempre pronta ad indirizzare le vite di chi la attraversa verso nuove e imprevedibili traiettorie.
Una città che consente però anche di ritrovarsi, di mettere meglio a fuoco i propri desideri e ambizioni, nella quale è possibile sentirsi a casa, anche attraverso l'onnipresente jazz, evocato, inseguito, ascoltato e suonato per tutto il film (il seducente stile pianistico di Erroll Garner domina tutta la colonna sonora) una città dove passeggiare, anche e sopratutto, sotto una pioggia irreale e bellissima. Ed è infatti la pioggia una delle componenti fondanti di tutta la pellicola, tanto da essere evocata fin dal titolo. Gocce che sembrano fatte di filamenti iridescenti che più che bagnare, illuminano i volti dei protagonisti. Amare la pioggia si rivelerà determinante, quasi una scelta di campo, come già era stato in Midnight in Paris, perché non si può davvero vivere con chi non trova romantico camminare sotto la pioggia. Ma non è tutto qui. Per quasi tutto il film infatti, si ha l'impressione che piova col sole. Per lo meno questa è la curiosa impressione che la straordinaria fotografia anti-naturalistica di Vittorio Storaro riesce a creare.
Una pioggia battente e incessante che però è sempre costantemente attraversata, tagliata, puntellata di raggi di luce caldi e avvolgenti. Dopo un po’ non ci si fa più caso ma una delle prime cose che si nota è questa: è un film dove piove col sole. Difficile pensare ad una metafora più splendente e centrata per rappresentare la poetica alleniana. La regia illuministica di Storaro, del tutto priva di manierismi o eccessi, si imprime in ogni scena con una forza, un fulgore, da lasciare abbacinati. Ma chi conosce la luce con questa maestria, sa anche come conservare il raggio di luce più emozionante, per la scena più scura e importante del film e forse, una delle più segnanti della filmografia di Woody Allen.
Nel finale, la madre di Gatsby, alla fine della festa, a cui lui contro voglia si è deciso ad andare, lo prende da parte, per parlargli. Una scena tutta in penombra, poco illuminata, dove non si sa da dove o come (un po come l'apparizione finale di Selena Gomez) entra un raggio di luce del quale quasi possiamo sentire il calore, che basta appena a illuminare il vestito di Cherry Jones, la madre del protagonista, il suo volto e il suo sorriso non sorriso. La luce non è mai stata così decisiva. Ecco che, avvolti da un'oscurità totalmente priva di cupezza, assistiamo ad una confessione finale imprevedibile e stupefacente, che cambierà tutto.
Resta il tempo per un finale liberatorio, luminoso, che si apre a chi sa lasciarsi sorprendere dalla vita, sotto una pioggia scrosciante, di una bellezza cristallina, un finale che non ha bisogno di parole, forse quasi un sogno, ma pienamente felice, finalmente.