Sono i giorni del maxiprocesso. Le prefiche protestano sugli spalti. Gli imputati inscenano ridicole pantomime: uno si cuce la bocca, un altro ha le convulsioni, Luciano Liggio spiega che se non fuma il sigaro muore. Ma non sono loro i protagonisti della recita. Protetto da tre pannelli di vetro disposti a ferro di cavallo, Tommaso Buscetta, una bestia in vetrina, dà le spalle al pubblico. Pippo Calò, l’amico con cui andava a vedere gli animali allo zoo (e di parallelismi zoologici è pieno il film, dai topi che scappano alle tigri ingabbiate) e che l’ha tradito nel più feroce dei modi, ha chiesto un confronto. Ora le attrazioni sono proprio loro, uno accanto all’altro, separati da una lastra, osservati da tutti gli astanti con la stessa attenzione dovuta ad uno scontro all’ultimo sangue. Buscetta lo incalza con la voce rotta dal dolore per il troppo sangue versato nella guerra di mafia, Calò invece nega di conoscerlo, cercando di sbugiardarlo con ostentato disprezzo.

Circa un decennio dopo, Franco Coppi, l’avvocato difensore di Giulio Andreotti, applica lo stesso metodo per umiliarlo e mettere in evidenza le contraddizioni e le reticenze del grande pentito, chiamato a testimoniare sulle connivenze mafiose del divo. Il traditore trova qui tutta la valenza polisemica del suo titolo. Buscetta tradisce Cosa Nostra perché si sente tradito da chi detiene il potere (su tutti Totò Riina, che “i soldi non se li gode” perché vuole solo comandare e non segue i presunti antichi valori dell’organizzazione: non si guardano mai negli occhi), sceglie di collaborare con lo Stato per salvare anzitutto se stesso; e quando Coppi lo punge, sottolineando i vantaggi della sua posizione giuridica e un’inopportuna crociera pagata chissà come, sembra quasi voler evocare il tradimento nei confronti di chi ha contribuito alla protezione.

Prima traditore di Cosa Nostra, poi traditore dello Stato. Tutta la vita americana di Buscetta dopo le rivelazioni è l’apoteosi di una paranoia, suggellata dall’epilogo notturno: il giovane Babbo Natale che canticchia un’inquietante versione adattata de L’Italiano di Toto Cutugno, ripresa in modo ancora più sinistro durante il processo Andreotti da Calò, è il segno più eclatante della sfiducia. Cosa c’entra Marco Bellocchio con Tommaso Buscetta? Niente, è lo stesso regista ad ammetterlo. Forse proprio per questo Il traditore – abitato da un gigantesco Pierfrancesco Favino – è uno dei film più densi, ricchi, equilibrati, in definitiva perfetti della sua carriera.

A ben vedere, affiorano molte delle sue ossessioni: il rapporto tra padri e figli, ora modulato sul conflitto interiore di un genitore che vive il trauma di non essere stato all’altezza delle drammatiche circostanze; il potere messo in crisi da un uomo deciso a romperne gli schemi, qui perché attratto da un rassicurante modello di vita piccolo-borghese; la rabbia incarnata da personaggi per certi versi stravaganti, in questo caso Totonno Contorno (clamoroso Luigi Lo Cascio) dal palermitano incomprensibile dunque invalicabile; il contrappunto operistico in grado di evocare una dimensione atemporale che costeggia anche certe suggestioni da tragedia greca; il tempo usato come strumento per ragionare in una prospettiva più complessa e al di là dei passaggi lineari, complice il montaggio ancora una volta fondamentale di Francesca Calvelli.

Ed è difficile, inoltre, trovare qualcosa di più bellocchiano del confronto tra Buscetta e Calò, la commedia che il regista di Bobbio si porta dentro da sempre qui portata sul confine spericolato tra grottesco e tragedia. La messinscena esaltata dai trucchi posticci (o secondo scelte inattese, da puparo allusivo: Andreotti è Pippo Di Marca, icona dell’avanguardia teatrale) e comunque affrontata con un rigore, una solidità, un’onestà intellettuale che lo rendono tuttora un cineasta giovane e al contempo maturo. È da almeno un ventennio che il suo cinema – spesso segnato dall’incontro con le zone oscure della recente storia italiana – si è fatto più compatto e ponderato, anche nei cambi di registro talvolta oscuri, certo imprevedibili, come nell’ultimo, incompreso, personalissimo benché a partire da una biografia altrui Fai bei sogni.

Ecco, in questo film in superficie impersonale maneggia per la prima volta il mafia movie e sembra quasi non tenere conto di tutta la tradizione del genere: non solo non c’è alcuna possibilità di restare affascinati dal male, perché rappresentato in maniera efferata oppure ridicola da gente ignorante e squallida, ma spicca anche una centralità della morte davvero angosciante, dai tentati suicidi e le manie di persecuzione passando per i caffè sospetti fino alle esecuzioni e agli attentati. Della mafia a Bellocchio interessa il codice, non la mitologia: la festa iniziale, con quel nipote eroinomane in riva al mare, è già una cerimonia funebre. E se non si muore ammazzati in malo modo o si uccide aspettando il momento giusto, si resta chiusi in cella a girare su se stessi costeggiando la follia. Cosa c’è di più bellocchiano della follia, atto di ribellione contro la realtà? Diciamolo pure, Il traditore dimostra quanto Bellocchio sia il più grande regista italiano vivente.