Si apre con una presenza fantasmatica, Il varco: una piccola figurina ingoiata nel bianco lattiginoso della nebbia, mentre una voce gentile di ragazza recita un’antica favola russa. È un’immagine d’archivio, un frammento sepolto tra i super8 sgualciti di Home Movies. Forse la nebbia non è nebbia, ma muffa che intacca il nitrato, e chissà chi è quel ragazzino con i pantaloni alla zuava, ectoplasma ambulante mummificato su pellicola, orfano di nome e cognome. La favola russa con lui non ha niente a che fare, e con quegli occhi furbi e assorti, forse, ci sta supplicando di non ascoltare quella voce soave che gli ruba la scena. Ingenuo, insomma, chi pensa che il found footage non menta: persino il più trasparente dei filmini amatoriali, sottoposto alla tirannia degli anni, può trasfigurarsi in enigma.
Lo sanno bene Federico Ferrone e Michele Manzolini, che firmano a quattro mani una creatura spuria e bifronte: il loro film è fatto di immagini della fallimentare campagna di Russia del 1941, provenienti dall’Istituto Luce e dall’archivio Home Movies. Immagini che più vere non si può, ma frammentarie, a cui il rimontaggio e la voce over infondono una nuova unità di senso. I filmini delle piane dell’Ucraina, prima dolci e poi innevate, solcate dai treni che portavano i militari italiani alla guerra, sono girate dai militari stessi, pedine nella marea di sangue del fronte orientale che vollero catturare le tappe di un viaggio sciagurato. Tutte insieme, rimescolate col senno del poi nella centrifuga di una sala di montaggio, diventano momenti della vita di un personaggio inventato, un soldato come loro. Ma questo soldato parla il russo, la ragazza della favola era sua madre, e al fronte c’è grande penuria di interpreti con cui interrogare il nemico. Il soldato visita i luoghi dell’infanzia del genitore, torna tra le braccia di Madre Russia e, retrospettivamente, infonde le immagini di altri di benevola nostalgia.
Ma il varco del titolo non si limita al viaggio di sola andata. Come un tunnel che si insinua nelle pieghe della Storia conducendo indietro di ottant’anni, il sentiero si può percorrere anche a ritroso, tornando di nuovo al presente: si scopre che in quelle stesse piane, nel Donbass, ancora si combatte e ancora si muore. Le immagini di questo conflitto, girate ex novo da Ferrone e Manzolini, mimano le tinte desaturate dei materiali d’archivio, ma questa volta risplendono di un nitore pixelato, e finiscono per stridere e deconcentrare: sono immagini che spiegano il messaggio antimilitarista, e nel farlo lo depotenziano.
Ma sono frammenti isolati, che non scalfiscono il fascino inafferrabile di un’operazione studiatamente ambigua, stilisticamente raffinata e deontologicamente inesplorata: un’operazione per cui sarà lecito chiamare in causa, una buona volta a ragione, quella zona franca tra finzione e documentario in cui si incistano i germi della sperimentazione linguistica.