François (Jean-Claude Drouot) e Thérèse (Claire Drouot) sono una giovane coppia felice: amorevoli fra di loro e verso i figli, apprezzano la quotidiana vita familiare e godono di piccole grandi gioie, come le abituali gite domenicali in campagna. Un giorno per caso all'ufficio postale François conosce Émilie (Marie-France Boyer), e fra i due nasce una relazione che si trasforma in amore, senza che questo muti in alcun modo il suo atteggiamento verso la moglie. Ma il ménage à trois alla fine non funziona.

Vincitore dell'Orso d'argento al Festival di Berlino del 1965 (nel quale il massimo premio venne aggiudicato a Agente Lemmy Caution: missione Alphaville di Jean-Luc Godard, a dimostrazione delle fortune della Nouvelle vague in quel periodo), Il verde prato dell'amore di Agnès Varda è una interessante e ambigua riflessione sui legami fra gli individui. Racconta non tanto di un tradimento quanto di una fluidità dei sentimenti, in una società di metà anni Sessanta che si andava facendo più liquida, i rapporti fra le persone meno irreggimentati.

François non è un donnaiolo a caccia di conquiste, come mostra nel confronto col collega di lavoro alle cui fantasie resta indifferente, ma si sente realmente innamorato di due donne. Varda espone le argomentazioni del suo garbato protagonista senza giudicarle, a prima vista, poi però ne trae delle conseguenze molto drammatiche nel finale. Dietro a uno sguardo apparentemente bonario, nasconde una tesi inappellabile e personaggi che esistono in fondo solo come maschere prototipiche della tragedia. La conclusione è amarissima nel suo modo quieto, e spinge lo spettatore a riconsiderare tutto ciò a cui ha appena assistito: il perdurare di questa amabilità diffusa di persone, luoghi ed esperienze quotidiane si rivela una sommessa ma potentissima condanna della felicità (Le bonheur del titolo originale) nella sua crudeltà individualistica senza pensieri.

Pur determinata a colpire col contenuto, Varda non trascura di portare sullo schermo una forma che si fa notare e che è molto in linea con gli stilemi della Nouvelle vague: tagli di montaggio inaspettati, dissolvenze non in nero ma nei più disparati colori, immagini delle star cinematografiche sui muri alla maniera di Godard. Qui il suo tratto più personale è però il montaggio, non descrittivo ma impressionistico, che si alterna fra le pennellate morbide delle ambientazioni campestri, fotografate con toni caldi e accompagnate dalle incantevoli musiche di Mozart, il passo tradizionale delle scene di vita quotidiana, e i tagli affilati come un rasoio delle interazioni significative fra esseri umani, composte geometricamente al millimetro. Con massima economia di racconto restituisce la lieve e costante impressione di una dissonanza in atto, fino a quando in effetti qualcosa di terribile avverrà.