Se si dovesse considerare la carriera di Henry King in termini solamente quantitativi, già sarebbe da record: 116 film dal 1916 al 1962, dal muto al sonoro, dal bianco e nero al technicolor, dal 4:3 al CinemaScope. Tuttavia, all’interno di questa vastissima produzione i campi di prova dell’american director nei confronti del western sono stati relativamente pochi: tre film sonori e qualche muto poco noto. Strano, verrebbe da dire, poiché la qualifica di King di regista-feticcio dello studio system e della golden age del cinema americano implicherebbe in qualche modo un più largo confronto con quello che André Bazin chiamava “il genere americano per eccellenza”. Genere attraverso il quale il cinema americano, più che in qualsiasi altro, ha definito il suo destino storico, il suo mito fondativo, delegando alle vicende del West una sorta di missione storica di definizione dell’ethos americano, che era carente di una grande tradizione letteraria quale invece quella europea o orientale. Spesso descritto come narratore del grande sogno americano, King ha saputo mettere in discussione quel mito, rappresentando eroi outsider che si misurano con le aspettative di una più o meno piccola comunità.
Si parte, in ordine cronologico, da una romantica avventura di fondazione con il muto Fiore del deserto (1926): attraverso la parabola di un capitalista dell’East Coast arrivato nel West per lucrare su quelle aree desertiche con impianti di irrigazione, la pellicola mette in scena una conversione di valori che glorifica l’adesione del personaggio a quel mondo, prima descritto come selvaggio e poi come benedetto, una terra santa in cui i pionieri creeranno una culla per la crescita di una nuova generazione di americani. Il futuro della nazione sembra quindi corrispondere alla negazione di quella stessa economia che l’ha fondata; se da una parte vi è effettivamente l’unione tra Est e Ovest attraverso un vero e proprio matrimonio, dall’altra sembra affermare che solo uno dei due mondi sia quello degno di proseguire nella sua missione fondativa del nuovo Paese.
La stessa problematizzazione dell’american dream prosegue poi con Jess il bandito (1939), stavolta però assumendo come eroe outsider un anticapitalista dichiarato – la leggenda fuori e dentro lo schermo Jesse James. In questa pellicola si attua il passo successivo e l’anticapitalismo viene affermato a grandi lettere, non solo dipingendo il bandito come eroe dalla grande dignità, ma anche mostrando la cattiveria degli speculatori delle ferrovie che hanno tolto tutto ai piccoli proprietari terrieri del Missouri. La comunità è dalla parte del fuorilegge, ma forse l’America intera: “Non credo che nemmeno l’America si vergogni di Jesse James”, viene detto alla fine del film. In questo film come nel successivo Romantico avventuriero (1950) sono alla fine i bambini che sembrano assumere su di sé tutto il peso del mondo dei loro padri, un mondo fatto di violenza e ingiustizia: in questo senso il loro imitare gli spari e i modi di James, Wyatt Earp o Jimmy Ringo risulta più inquietante che divertente.
L’americanità stereotipica del mondo del West sembra allora disgregarsi: la leggenda di Jimmy Ringo porta con sé l’evidente nevrosi di un uomo che vuole cancellare il suo passato, ma che è condannato dal racconto di sé da parte degli altri, che sembra inevitabilmente definirlo per sempre. Non c’è niente di glorioso nell’essere una leggenda del West, né nell’essere il salvatore della comunità come in Bravados (1958), dove l’eroe è deformato dalla sete di vendetta, e rivela tutta la drammaticità dell’essere glorificato per i motivi sbagliati. La mancanza del topos del genere dello scontro finale, sia in Romantico avventuriero che in Bravados, sembra allora perfettamente misurata a quel senso di avvilimento che accompagna i personaggi, eroi quasi per caso che scontano il prezzo del loro azioni.