Città e campagna, modernità e tradizione: sono questi i poli delle tensioni che più informano il cinema di Henry King, che appare oggi più che mai terreno di negoziazione tra istanze contrastanti. In Incendio a Chicago, gli scontri generazionali e di civiltà vengono integrati nella saga familiare degli O’Leary, una “strana tribù” di immigrati irlandesi che figura, metonimicamente, a rappresentante delle pulsioni della società tutta. La loro parabola si instaura sul mito fondativo della capitale del Midwest: Chicago passa da agglomerato fangoso, sperduto nella prateria, a metropoli moderna e sfavillante, corrotta dal vizio e dalla politica. La città assiste all’avvicendarsi di mondi in contrasto, dall’America puritana ai primi gangster, e si fa correlativo oggettivo di tali mutamenti.

Il racconto si appoggia su figure ricorrenti ed echi biblici – la città come terra promessa e poi come Sodoma e Gomorra, i fratelli O’Leary come moderni Caino e Abele – ma ha il merito di conservare, in tanta magniloquenza, una sorprendente agilità. Alice Faye, che fu sostituita in extremis a Jean Harlow nei panni di una soubrette smaliziata, si rende protagonista di una serie di numeri musicali da vaudeville, per gli occhi adoranti di Tyron Power, in una variazione particolarmente lusinghiera sul tema a lui caro del “bel tenebroso”. Le ottime caratterizzazioni dei personaggi permettono persino l’irrompere della commedia e del romance in un’opera che rivela solo con il trascorrere dei minuti la sua vocazione colossale.

Il climax spettacolare, nondimeno, è la risposta tonante alle ambizioni espansionistiche della Fox, che vide nel devastante incendio di Chicago del 1871 – che causò centinaia morti e migliaia di sfollati – l’occasione per inscenare una straordinaria dimostrazione di forza produttiva. Non sorprende allora che un’impresa tanto monumentale fu affidata al maestro del disaster movie, Henry King, che aveva già potuto dare prova del suo polso registico con l’eruzione vulcanica di La suora bianca (1923) e l’inondazione del fiume Colorado di Fiore del deserto (1926).

Nonostante la consulenza della Chicago Historical Society in fase di scrittura, il film fu accusato di aver trascurato dettagli d’epoca e piegato la storia alle proprie esigenze spettacolari. Ma sono peccati a dir poco venali, se si considera la sorprendente forza drammatica dell’ultima mezz’ora del film, in cui si orchestra sapientemente una tragedia collettiva che sarà eguagliata, due anni più tardi, solo dal rogo di Atalanta di Via col vento.