Ci fu quel periodo che va dal 1945 in poi, in cui lo sguardo di un uomo poté farsi popolo e quello di un popolo farsi uomo. Un tempo in cui, il cinema venne promosso a legittimo interprete della voce di un Paese rimasto in silenzio per vent’anni. Un cinema che diventa il primo grande ambasciatore di un’Italia sconfitta, vivo tra le macerie. Ci fu, poi, un periodo in cui la storia spezzò e insieme unì il percorso delle vicende umane, il Sessantotto che impegnò il cinema nei cineclub, nei giornali, nei comizi e nelle riviste di partito, negli scontri con la polizia.

Tra gli artigiani di punta nel filone del cinema politico, spicca Elio Petri, che passando tra strade, cellule del PCI e camere di sicurezza, scruta in maniera icastica i comportamenti e i linguaggi, la psiche e le debolezze, le contraddizioni e le grandi colpe di quelli che accendevano le fabbriche e di quelli chiamati a dispensare  l’ordine pubblico nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. In anni pesanti come il piombo, dove stragi e bombe diventano sempre più frequenti, “indagare” diventa la parola chiave laddove altri vedono solo quello che vogliono vedere. Nasce così la “La trilogia della nevrosi” un’opera cinematografica che sta alla tensione sociale e politica di quegli anni come, i mandolini e pianoforti scordati, di Ennio Morricone, stanno al personaggio maniacale, tanto apparentemente potente, quanto intimamente fragile di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Premio Oscar come migliore film straniero nel 1971 e Premio speciale della giuria al Festival di Cannes, si tratta del primo capitolo della trilogia della di una spietata denuncia al  potere e alla sua arroganza. A condurre l’indagine entrano nella squadra di Petri anche lo sceneggiatore Ugo Pirro e Gian Maria Volonté, che presta il suo talento nel rappresentare quel personaggio maniacale, un capo della Squadra Omicidi di Roma, intento ad abusare del proprio potere entrando nei giochi perversi della sua amante (Florinda Bolkan) fino al punto di ucciderla.

“Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile”, urla il “dottor” Volonté,  ai suoi uomini, eletto alla direzione dell’ufficio politico (oggi la nota Digos). Il pericolo dell’autoritarismo, si sprigiona in questa pellicola, un pericolo, che Petri in un’intervista paragona ad “un veleno che serpeggia nelle nostre psicologie”. L’omicida è parte attiva dell’indagine, l’omicida è servo della legge, ma mentre si esercita a maneggiare il potere, vuole anche tastarne il limite fornendo indizi e tracce quasi alla ricerca di una pervasione nel proprio rimorso e senso di colpa.

La coscienza ha una divisa diversa nei commissariati di polizia sullo sfondo della strage di Piazza Fontana. Chi la indossa sente la libertà di reprimere nel segno della civiltà poiché “il popolo è minorenne, la città è malata, e ad altri spetta il compito di curare e di educare”, dice il Dottore chiamato anche “L’Assassino”. La coscienza che appartiene alla legge e che sfugge al giudizio umano è “napoleonica” ci insegna Dostevskij, è al di sopra delle masse, e la realtà de L’Assassino che disprezza la democrazia, la verità, lo troviamo ancora in tante indagini irrisolte del nostro Paese.

"Bravo, dottore!" 

"Con modestia, con modestia, al lavoro!"