Leggendo Io e Mr Wilder di Jonathan Coe può venire il dubbio che il romanzo in questione sia fatto, almeno in parte, della materia di cui sono fatti i film. Il primo indizio ce lo dà il titolo che introduce la vicenda narrata: quell’io accanto al cognome del famoso regista allude a Calista Frangopoulou, compositrice di colonne sonore di origine greca, che ha cinquantasette anni e vive a Londra col marito e due figlie ventenni e la cui vita è cambiata, nell’estate del 1976, grazie all’incontro fortuito con Billy Wilder e alla successiva chiamata come traduttrice sul set greco di Fedora.

L’espediente narrativo di Calista come testimone del set cinematografico del penultimo film di Wilder consente a Coe di far immergere il lettore in questo testo non fictional, in cui i ricordi della donna si mescolano ad eventi reali della vita del grande regista e si intrecciano ai temi di fondo del suo Fedora: il passare del tempo e la difficoltà ad accettarlo. Dietro quell’Io volutamente ambiguo del titolo intravediamo poi - neanche troppo in filigrana - l’autore, cioè Jonathan Coe, con cui la protagonista condivide più o meno la stessa età, l’amore per il cinema, figli ventenni, un colpo di fulmine in giovane età per Billy Wilder e una grande ammirazione per il suo penultimo film: Fedora.

Oltre a questo doppio io, nel romanzo si stagliano, in modo netto, altri due protagonisti che, nella stessa dinamica autore/personaggio, si sovrappongono: Wilder e il suo Fedora. Wilder all’epoca delle riprese di Fedora, nel 1977, aveva una settantina d’anni e sentiva - nel suo modo di girare, nel suo modo d’intendere il cinema - tutta la differenza e la lontananza tra la vecchia Hollywood, che incarnava, e quella nuova che stava avanzando. Ma percepiva anche, forse con un filo di rimpianto, le nuove energie e le potenzialità espressive su cui il cinema si stava affacciando.

Fedora era il film di un grande e vecchio regista su una diva di mezza età scomparsa dalle scene, che si ritira e si nasconde dietro il mito della sua stessa bellezza, sacrificando la sua identità e quella della figlia al culto della propria immagine. Come in Il Viale del Tramonto si affrontava il passaggio dall’epoca del cinema muto a quella del sonoro, in Fedora appare evidente un altro grande transito storico cinematografico, ma guardato da un altro punto di vista. Se nel capolavoro del 1950 Wilder finiva per identificarsi con il giovane sceneggiatore Joe Gillies, nella sua penultima opera si sovrappone alla protagonista Fedora e in parte al produttore hollywoodiano Dutch Detweiler (di nuovo William Holden, di nuovo grande protagonista maschile), entrambi figli di un’epoca che sta per svanire.

Fra tutti questi protagonisti, che entrano ed escono dalle pagine di Coe e dalle pellicole di Wilder, si instaura un gioco sottile riflessi che alla fine si sovrappongono fra loro. Riflessi che in parte Wilder riconosceva e che forse, come Fedora, in parte temeva. “C’erano sessantatre specchi, sessantatre di troppo per me” fa dire il regista alla sua protagonista quando descrive la villa in cui si è ritirata a Corfù. Eppure qualche gioco di specchi filtra, lasciando spazio, accanto ad un certo rimpianto, alla voglia e alla capacità di ruggire ancora. Sentimenti e suggestioni che Coe coglie con una sensibilità e un’ironia tutta wilderiana. Nel romanzo racconta infatti di quando Audrey, la moglie di Wilder, in una pausa di lavorazione dal set di Fedora lo trova in terrazzo a meditare vicino ad una rivista di cinema che parla del film “Lo squalo”. Alla coraggiosa domanda di Audrey su cosa stia pensando Billy risponde: “Pensavo che una volta anch’io sono stato Steven Spielberg.”

Il romanzo è talmente intriso di cinema da ospitare addirittura una piccola sceneggiatura, che Coe attribuisce allo stesso Wilder nel momento in cui si rivolge ad un giovane negazionista per raccontargli l’orrore del nazismo. Sono una quarantina di pagine, scritte sotto forma di copione cinematografico, in cui Coe fa raccontare a Wilder dei suoi anni di gioventù bohémien tra Berlino e Parigi, dove fugge all’indomani della nomina a Cancelliere di Hitler. Qui arriverà poi la tanto attesa chiamata da Hollywood e il successo. Dopo la guerra però Wilder ritornerà in Europa - quando il suo nome di battesimo da Billie è già americanizzato in Billy - tormentato dai fantasmi delle persecuzioni naziste e dall’incertezza sulla sorte della madre rimasta a Vienna. A Londra avrà l’occasione di visionare alcune pellicole con le riprese degli alleati ai campi di concentramento. Da quelle immagini - fra cui cercherà invano il volto della madre - nascerà, nel ’45, il suo cortometraggio I Mulini della Morte.

Un libro dunque che contiene, fra le tante altre cose, un piccolo copione da cui nasce - almeno nella mente del lettore - un immaginario film interpretato da Wilder. Ma anche un libro che ci spinge a riflettere su come l’opera di questo grande autore americanizzato sia permeata da una storia, una cultura e una sensibilità tutta europea. E uno dei meriti di Coe è proprio questo, l’aver colto - attraverso il racconto romanzato di uno dei film meno noti e fortunati di Wilder - quelle zone d’ombra, quelle pieghe segrete e meno esplorate della sfaccettata personalità dell’uomo e del regista. Come se anche noi - come fa Billie nel romanzo - sentissimo uno strano rigonfiamento nell’orlo del cappello, aprissimo la cucitura interna e ci accorgessimo che qualcuno che ci vuol bene ci ha nascosto dentro un piccolo tesoro.