Con Io ti salverò, Alfred Hitchcock aveva l'ambizione di realizzare “il primo film di psicoanalisi”. Naturalmente in salsa crime, e dunque ecco Ingrid Bergman nei panni di una psicoterapeuta in una clinica di medici tutta al maschile, a parte lei, impegnata a dimostrare l'innocenza di uno sconosciuto, Gregory Peck, presentatosi come il nuovo direttore e poco dopo dimostratosi un impostore e probabile assassino del suddetto. Sconosciuto del quale si è, come è facile intuire, perdutamente innamorata, e che è possibile scagionare solo andando a curare l'amnesia e il complesso di colpa che lo attanagliano.

Tralasciando inevitabilmente il divieto assoluto di una relazione amorosa fra terapeuta e paziente, il “primo film sulla psicoanalisi” è sviluppato per il resto come una sorta di introduzione alla disciplina, atta a illustrarne le metodologie e le finalità di base, non facendosi mancare ampie discettazioni in seno alla sceneggiatura. Con un'insistenza così ripetuta sulla scientificità della procedura, da evidenziare chiaramente quanto quest'ultima dovesse ancora guadagnarsi un pieno riconoscimento sociale all'epoca dell'uscita del film, nel 1945.

Così anche la centralissima – per la soluzione del mystery – interpretazione del sogno dello smemorato protagonista, più che risultare un costrutto terapeutico elaborato sulla base della singolarità del paziente, come avverrebbe in un vero setting analitico, viene nel film risolta come una traduzione punto a punto da un ipotetico dizionario, con questo tradendo uno spirito più positivista che novecentesco, in una perfetta identità fra sbrogliamento del significato del sogno e della trama gialla che fa da motore al tutto.

Per la resa del sogno, Hitchcock tutto voleva tranne che il solito linguaggio cinematografico dell'epoca, basato sulla “nebbia” e “lo schermo che trema”. Ed è qui che decise di chiedere la collaborazione di Salvador Dalì, sicuramente l'aspetto della pellicola che più è passato alla storia. Le sequenze basate sulle scenografie da lui disegnate sono estremamente suggestive e giustamente famose, come quella dei plurimi occhi e la corsa del protagonista sul piano inclinato. Non c'è nessuna verosimiglianza coi sogni reali (d'altronde quanti di noi hanno mai sognato nani e sipari rossi alla David Lynch, tanto per fare un esempio?) ma la risultanza visiva è molto perturbante, lasciando l'impressione che sia proprio nel momento in cui Hitchcock decide di farsi meno didascalico che riesca a rendere la potenza dello studio della mente – oltre che l'idea, per citare Italo Calvino, che in un trattamento a volte occorra l'infedeltà della forma per risultare fedeli al concetto.

In ogni caso a Hitchcock, da buon cattolico, di tutto lo spettro della psicopatologia sembra interessare soprattutto il complesso di colpa: i suoi film più centrati su aspetti psicoanalitici (oltre a questo occorre citare almeno La donna che visse due volte, Psyco e Marnie) sono sviluppati su questa dinamica nonché spesso su un salvatore o una salvatrice animati non tanto da disinteressata carità quanto piuttosto da pulsioni sessuali sotterranee.

Nel caso di Io ti salverò, la salvatrice e l'origine del punto di vista del film è la psicoterapeuta interpretata da Ingrid Bergman. Bergman che, col suo fascino solido e discreto, si pone come perfetta agente dell'azione. E sempre questo risulterà il suo ruolo nella filmografia hitchcockiana (Notorious - L'amante perduta arriva a ruota nel 1946), non ponendosi mai come mero oggetto dello sguardo e dell'ammaliamento altrui, ben diversa da quella sorta di modello iconografico del desiderio che le pur diverse Kim Novak, Tippi Hedren e Grace Kelly in qualche modo condividono.

L'entrata in scena di Gregory Peck per la prima volta, invece, viene resa in maniera non dissimile da quella di Madeleine al ristorante ne La donna che visse due volte, con l'attore circonfuso di luce ed evidentemente oggetto dello sguardo incantato (come il titolo originale della pellicola, Spellbound) di Bergman, così come là vi era quello di James Stewart. Si è molto criticato a Peck di non essere né granché adatto come protagonista hitchcockiano né particolarmente espressivo in questo film, ma entrambe le obiezioni hanno un fondamento relativo.

Peck in effetti non funziona particolarmente bene nel successivo Il caso Paradine (1947) – fu imposto da David O. Selznick, mentre Hitchcock avrebbe voluto Laurence Olivier – perché dovrebbe fungere da nostro eroe di tutti i giorni, dal cui punto di vista esperiamo la vicenda raccontata; in Io ti salverò, invece, Peck funge da oggetto del desiderio di Bergman, e il regista lo tratta esattamente come tutti i personaggi che hanno incarnato questa funzione nella sua filmografia, ovvero caratterizzandolo per distanza e inconoscibilità.

Ai fini della suspense, Peck deve suscitare negli spettatori uno spiazzamento simile a Cary Grant ne Il sospetto (1941), ma avendo rispetto a quest'ultimo un ruolo molto più passivo nelle vicende narrate (peraltro, curiosamente, in entrambi i film troviamo un bicchiere di latte dall'aria affatto innocua). Così, Peck a tratti ha gli occhi del cane bastonato, in altri è incline a subitanei e poco rassicuranti scoppi d'ira; più spesso è una maschera ieratica da cui dipartono lunghe inquietanti ombre, un'apparizione seducente in cui coesistono luce e buio. Se il personaggio funziona meno bene di Madeleine o Marnie, forse è semplicemente perché Hitchcock era meno ispirato dall'attore che da Kim Novak o Tippi Hedren, le sue pulsioni omoerotiche o represse o inesistenti.

Al personaggio femminile di Bergman, Hitchcock e soprattutto lo sceneggiatore Ben Hecht (qui alla sua prima di molte collaborazioni col regista, basata sul romanzo The House of Dr. Edwardes di Francis Beeding) forniscono qualche spunto sottilmente pungente, con la pletora di colleghi maschi che hanno da farle la paternale sia all'inizio quando si dedica solo allo studio e alla ricerca, sia poi quando si fa distrarre dai sentimenti. E se credere all'innocenza di lui, oltre ogni apparente ragionevolezza, parrebbe dare ragione al vecchio adagio secondo cui le donne in amore perdono la testa, è pur vero che alla fine dei conti lei non ha tutti i torti.

Siamo comunque nel 1945, e allora tutto si può ricomporre confermando la fiducia nella buona, solita intuizione femminile.